E lo scudetto della sofferenza arrivò dall’uomo di Moggi

Il momento è stato un rombo di tuono, annunciava il temporale e sembrava la fine, la solita storia di essere interisti e non avere mai pace. Il momento è stato gli undici punti di vantaggio, uno scudetto luccicante sul petto e sulla faccia l'espressione superiore di una squadra diversa: era a quel punto che forse però non era più Inter. E allora il momento è stato ieri a Parma - sotto l'acqua, sotto quelle nuvole che sembravano troppo nere per un giorno di festa - quando la storia ha rimesso tutto a posto, dalla paura al trionfo, dall'Inter all'Inter, alla faccia di gufi e scongiuri.
Essere interisti è così, non avere mai certezze. Essere interisti vuol dire avere la squadra più forte ma arrivare al fiato finale col groppo in gola. Essere la squadra dei campioni e doversi affidare a un ragazzo di 17 anni che fino a un certo punto sembrava l'unico ad avere la testa sulle spalle. Fino al rombo di tuono però: quando è entrato Ibrahimovic ed ha spiegato a tutti cos'è davvero l'Inter. Cioè la differenza di avere Ibra e non averlo, la differenza tra una palla sgonfia che corre per il campo e una squadra che si guarda, si cerca, si trova.
Otto minuti ci ha messo quello che era l'uomo di Moggi a firmare il sedicesimo scudetto nerazzurro e la sua doppietta poi è uno sfregio a chi, solo una domenica fa, esultava ai gol del Siena pur essendo seduto sulla poltroncina di uno stadio diventato poco Olimpico, quello di Torino s'intende. L'uomo di Moggi che avrebbe vinto ieri il suo quinto scudetto consecutivo - Ajax, Juve, Juve, Inter, Inter - se non fosse che quelli Juve sono stati cancellati, mentre quelli Inter sono stati contro tutto e contro tutti. E questo - agli altri - fa male.
E se riavvolgiamo il campionato - di questi ultimi tre mesi ma anche di questi ultimi anni - forse si può capire che essere interisti è davvero una fatica, quegli occhi stanchi ma felici di Mancini, e soprattutto, in quell'urlo a fine gara al microfono che cercava di farselo per una volta amico: «È per gli interisti, solo per gli interisti».
Già, solo per quelli che finalmente hanno smesso di ricevere messaggini sorridenti ma col trucco di chi augurava un sereno finale di campionato, per quelli che ascoltavano in tv i tecnici rivali fare tanti complimenti per dire che sì, l'Inter era stanca, ma lo scudetto non poteva vincerlo che lei. E per quelli che hanno visto pescare nel torbido alla vigilia della partita decisiva, ma anche assistere un po' sgomenti ai dispetti che fuoriuscivano dalle stanze segrete della società, perché se l'amministratore delegato Paolillo ieri ha detto «speriamo che Mancini resti», si spera anche che lo pensi davvero.
Ma anche questo è essere interisti, non essere mai contenti, vincere una coppa Italia ma pensare a uno scudetto perduto, vincere lo scudetto e rimpiangere la Champions, avere l'allenatore più vincente della storia recente e pensare che forse non va più bene. Eppure, nonostante tutto, gli interisti ce l'hanno fatta, hanno sofferto, sperato, gioito e esultato, rimandando indietro scongiuri, gufi e maledizioni di chi aveva già prenotato un bel Tapiro da regalare all'amico nerazzurro. Da ieri il fantasma del 5 maggio è sparito e ha lasciato il posto al semplice giorno in cui l'Inter ha perso lo scudetto all'ultima giornata, così com'è successo a tante altre squadre che però non erano l'Inter. E forse è più bello così, perché essere interisti è magari essere un po' meno simpatici ma un po' più felici. Moratti ha detto: «Abbiamo stravinto contro tutto e contro tutti». Moratti e gli interisti hanno pensato che sì, abbiamo vinto, alla faccia dei complotti sparati in prima pagina e alla faccia delle edizioni straordinarie che purtroppo - che peccato - oggi non troverete in edicola.


Essere interisti è insomma ritrovarsi un giorno di maggio sotto la pioggia, è sentire un rombo di tuono che vuol dire uno scudetto, già, meritato. Ritrovarsi felici e pensare finalmente che il resto era solo un temporale. E di solito passa in fretta.

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