E la sinistra abbandonò i sindacati

E la sinistra abbandonò i sindacati

La consultazione dei sindacati nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro avviene in un clima viziato e un po’ stravolto dalla posta politica fissata da Epifani. Il quale ha azzardato che ove l’accordo fosse respinto ci avvieremmo verso una crisi di governo. Successivamente, e dinanzi alle reazioni critiche di qualche osservatore il quale ha parlato di un sindacato che pretende di farsi protagonista della vita istituzionale, Epifani ha dato al suo intervento il carattere di una previsione, o di un avvertimento. Parlando in un’azienda metallurgica bolognese, ha detto, testualmente: «Se prevarranno i no, nessuno è in grado di sapere che cosa succederà». Parole destinate a evocare eventi temibili, tutti da interpretare.
La drammatizzazione di Epifani, un po’ stupisce. Alla fine i voti per il «sì» ci saranno, e prevarranno, perché al di là delle assemblee di alcune fabbriche peserà la vera e propria «maggioranza silenziosa» di Cgil, Cisl, Uil, i pensionati, il pubblico impiego. Ma superato l’ostacolo che consentirà a Epifani, Angeletti e Bonanni di salvare la faccia e la firma sull’accordo, resta la realtà, pesante, di una parte del lavoro operaio che avverte di essere relegato all’opposizione e nel sindacato e nella sinistra che si definisce «riformista». I fischi di Mirafiori, quelli della Fiat di Melfi, sono sintomi che pesano. E a rivendicare l’autonomia del sindacato c’è l’aspro rimprovero mosso alla Cgil in un’assemblea Fiat: «All’epoca di Berlusconi su questi temi ci avreste radunati in piazza».
Tale è stato il tono di tanti dibattiti, non positivo per il governo, perché certi argomenti del «no» sono sostenuti dalla sinistra estrema, decisa a tenere duro per portare a casa qualche risultato. Una prospettiva che provoca le reazioni dell’area moderata per la quale «l’accordo non si tocca», deve passare così com’è. Ed è questo, per Prodi, il passaggio difficile della Finanziaria di qui alla fine dell’anno.
I problemi sono tutti del governo, la consultazione voluta da Cgil, Cisl e Uil sull’accordo del luglio non è a rischio quanto al risultato finale. È vero però che non si è avviato nel migliore dei modi per le Confederazioni e proprio in quelle fabbriche che una volta erano il cuore del movimento sindacale. E le conseguenze politiche saranno serie, e di lungo periodo. Per salvare, con l’approvazione di un accordo sul quale lo stesso Epifani aveva espresso riserve, un governo che nessuno difende a spada tratta, il sindacato da una parte, la sinistra massimalista dall’altra, hanno introdotto fra i lavoratori una divisione lacerante. E lo hanno fatto nella mitica classe operaia, gratificata dai comunisti e nemmeno tanto tempo fa del ruolo di «classe generale» sulla quale andavano misurati gli interessi della intera società.
Una conseguenza è quella di spingere una parte del mondo del lavoro fra le braccia della sinistra massimalista e di un estremismo diffuso in una parte della società italiana. Ma una conseguenza riguarda la stessa sinistra «riformista» che si dispone ad immettere sul mercato elettorale il Partito Democratico. Questo Pd appare singolarmente privo di interlocutori sociali. Si è detto degli operai, ma il Pd non ha grandi chance per farsi interprete di una borghesia produttiva, in specie al nord, piccoli industriali, artigiani, commercianti, professionisti.

Gli interlocutori, e sodali, rischiano di limitarsi a quella classe burocratica e politica della quale la stessa nomenklatura è parte e che costituisce la famigerata «casta». Possono aggiungervi l’attenzione dei cosiddetti «poteri forti» nell’economia, nel mondo delle banche, in quello editoriale e mediatico. Ma sono attenzioni interessate, e alquanto infida.
a.gismondi@tin.it

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