E Van De Sfroos fa successo in tv con il suo folk

Lui, il beffardo Davide Van De Sfroos, ha dato una bella spinta alla riscoperta del dialetto nel rock. È partito sparato cantando ballate profonde nel gergo dei laghèe comaschi ed è volato su su nella hit parade. Gli davano del leghista e ha riempito gli stadi del Sud e poi di mezza Europa, conquistando persino New Orleans. Ora è arrivato in tv, il martedì su Raidue, a parlare di folk italiano e dintorni col programma Follie rotolanti. «Finalmente anche da noi hanno capito che non si può chiudere il folk in frigorifero tirandolo fuori decenni dopo per raccontare il bel tempo andato. Il folk invece, soprattutto cantato in dialetto, è parte integrante del rock ed è molto attuale. Basta citare i Lou Dalphin o la nuova tradizione napoletana». Ma cos’è il folk in realtà? «È la storia della gente. Noi siamo esterofili, ma i nostri paesi sono pieni di personaggi che hanno da raccontare storie alla John Ford o alla Kaurismaki. Non i bulli di paese che si vantano a vuoto, ma gente che ti onora della sua storia, come i minatori di Frontale. Del resto in America il folk è il mito, è Bob Dylan, il Mississippi, i cowboy, mentre da noi fino a poco tempo fa era considerato roba per vecchi alcolizzati e nostalgici».
La sua lotta non è stata vana ora che si vuol portare il dialetto in tv e persino a Sanremo. «La mia non è mai stata una battaglia; canto il dialetto della mia terra con amore, come Robert Johnson suonava il blues e Bill Monroe il bluegrass. Non pretendo di trasformare il Festival in una sagra paesana, ma con un po’ di sano dialetto ci sentiremmo più uniti. La canzone dialettale deve diventare come il buon vino, senza barriere geografiche: il Nero d’Avola piace anche al Nord, perché non devono piacere i brani della tradizione sarda o del Salento». A proposito, i Tazenda andarono a Sanremo cantando nella loro lingua. «Sì ma insieme a Pierangelo Bertoli che replicava in italiano e sembrava un traduttore».
Van De Sfroos comunque non ha dubbi sulla regione più all’avanguardia nell’unire modernità e tradizione. «L’Emilia Romagna.

È la regione più rock e al tempo stesso quella più legata alle radici. Da noi nel comasco spesso una radio troppo alta dà fastidio, in Emilia invece ballano e cantano sempre: i giovani fanno rivivere le antiche ballate e i vecchi indossano le t-shirt dei Doors».

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