Ecco che cosa succede se la Grecia esce dall’euro

Qual è la probabilità che un paese decida di uscire dall’euro entro il 2010? Semplice: il 23%. Non si tratta di una previsione da economista ma del valore effettivamente scambiato ieri su un noto sito americano di scommesse su eventi futuri. È inutile quindi nascondere la testa sotto la sabbia e negare del tutto che ci sia questa possibilità, anche perché il comportamento ondivago della Germania (che non si capisce se sia sconsiderato o troppo furbo) non sta certo aiutando a risolvere i problemi.
Cominciamo con il chiarire perché uno stato debba essere attirato dall’idea di riprendersi la Dracma o l’Escudo. La ragione è evidente: poter stampare denaro è una gran comodità. Svalutare la moneta per uno stato è come abbassare prezzi e stipendi per tutti contemporaneamente, rendendo la produzione domestica più economica e quindi competitiva sui mercati esteri. Anche il problema del debito verrebbe aggirato, in quanto una Banca Centrale nazionale potrebbe comprare titoli del debito pubblico praticamente «stampando denaro» e consumando il debito con la relativa inflazione. Ci sono tuttavia dei «ma» davanti a questa tentazione, talmente grossi da risultare quasi insormontabili. Il primo è che l’«opzione di uscita» dall’unione monetaria non è prevista da alcun trattato, quindi abbandonare l’euro significherebbe abbandonare unilateralmente anche l’Unione Europea, con presumibile immediato ritorno delle dogane e dei dazi attorno al paese, ormai ex euro, come ritorsione contro la «furbata» della svalutazione. Il secondo problema è legato alla facilità di spostamento dei capitali: prevedendo una svalutazione della «nuova» moneta, nel momento in cui anche solo si iniziasse a discutere di un cambio di valuta, tutti tenterebbero di spostare i propri euro fuori dai confini nazionali salvandoli dalla conversione forzata per poterli rimpatriare in un secondo momento con un valore maggiore: bisognerebbe quindi imporre un divieto immediato di esportazione dei capitali fino alla conversione, cosa assai più facile a dirsi che a farsi in un’Europa da tempo senza barriere.
In realtà la questione del posizionamento della moneta “fisica” e della sua delocalizzazione per aggirare il cambio in valuta locale è addirittura minimale rispetto all’enorme problema dei contratti. Per la maggior parte dei cittadini, infatti, l’ammontare di denaro liquido che si detiene è ben poca cosa se paragonata con gli impegni che ci coinvolgono, siano essi attivi (come i risparmi investiti in titoli di stato) o passivi (come il mutuo che dobbiamo alla banca) o continuativi (come lo stipendio previsto dal nostro contratto di lavoro). Ebbene, in questo caso sono percorribili due strade ugualmente distruttive: o si cambia solo la moneta (e quindi si ridenominano solo i prezzi dei beni e i salari, lasciando immutati gli impegni finanziari a suo tempo sottoscritti in euro), o si cambia forzatamente tutto. Nel primo caso si rischiano grandi insolvenze, dato che un debitore si troverebbe nell’antipatica situazione di dover estinguere un mutuo in euro con uno stipendio percepito in valuta locale svalutata; stesso problema dello Stato che dovrebbe ripagare il suo debito pubblico in euro mentre incassa tasse in moneta di valore minore, con conseguente esplosione del rapporto debito/pil. Nel secondo caso, invece, si tratterebbe di un cambio unilaterale con effetti internazionali delle condizioni di un contratto, dato che il detentore straniero di un titolo di stato emesso in euro pretende, a ragione, che il suo denaro gli venga restituito nella stessa moneta in cui è stato prestato. Sarebbe quindi nient’altro che un default dello Stato (dato che con questa parola si intende il non mantenimento delle proprie obbligazioni) e allora, default per default, tanto varrebbe alzare bandiera bianca prima e ristrutturare il debito senza infilarsi nel ginepraio del cambio di moneta. Insomma, un gran pasticcio.


Una cosa comunque è certa: in una crisi di nuovo tipo come l’attuale, dove il punto chiave è la fiducia dei risparmiatori nel debito sovrano, continuare a sentire alcuni esponenti politici della sinistra che propongono come soluzione un aumento delle tasse sui risparmi, vale a dire proprio su quei titoli «sotto attacco» il cui acquisto va incentivato, fa capire bene come mai quest’Europa, nata sotto il segno dell’Eurosinistra, se la stia passando così male.

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