«Ecco come farò rivivere i mammut»

Il 50% del Dna dell’animale è stato ricostruito: tra due anni sarà completo

Ezio Savino

La Yukutia è una regione della Siberia orientale. Il suo permafrost (acquitrini gelati fino a 600 m di profondità, la cui crosta superficiale si ammorbidisce solo in piena estate) racchiude i resti dei mammut, Elephas primigenius, estinti più di 10.000 anni fa. Per una manciata di dollari, tramite agenzie specializzate nel commercio di reperti fossili del quaternario, si possono avere ciuffi del manto lanoso, e perfino un po' d'avorio dei maestosi pachidermi. Ma, se andranno in porto i progetti dello zoologo Alerei Tikhonov, dell'accademia delle Scienze russe, e di Ross MacPhee, del Museo americano di Scienze naturali, gli appassionati di preistoria potranno godere di ben altre emozioni. Insieme al biglietto aereo per la Yukutia, potranno staccare il ticket per visitare il «Pleistocene Park», un giardino zoologico vasto 16.000 km quadrati, che mescola le fantasie futuristiche di Michel Crichton al sogno ricorrente di ricreare un eden svanito da millenni. Sergey Zimov, uno scienziato russo, non ha dubbi: mettendo a frutto il lavoro di Tikhonov e di MacPhee conta, nel giro di pochi anni, di offrire ai visitatori lo spettacolo di mandrie di mammut lanosi, intenti al loro pasto di erbe siberiane. Rimbalza in questi giorni dalle riviste Science e Newsweek la notizia che dai resti fossili siberiani i biologi hanno già riedificato metà del patrimonio genetico del mammut. Altri due anni di paziente ricostruzione, e la catena sarà completa. Una femmina di elefante asiatico, la specie biologicamente più affine al mammut, sarebbe la mamma ideale di un cucciolo con tutto il Dna in regola per riportare fra noi il gigante del Pleistocene, dalle potenti zanne arcuate. Gli zoologi non sono nuovi a imprese del genere. Nel 1996, nella riserva della East Anglian, in Gran Bretagna, una cavalla diede alla luce un tarpan, l'antenato del cavallo europeo, estintosi più o meno all'epoca in cui scomparvero i mammut. L'evento coronava gli sforzi, avviati molti decenni prima, dei germanici Lutz e Hienz Heck, padri putativi del tarpan e di un altro ungulato, il bue selvatico, o uro, perso nelle nebbie del tempo. Diversi i metodi. Gli specialisti del secolo scorso lavoravano sugli incroci, affinando e selezionando le caratteristiche degli esemplari. Oggi si maneggia lo scrigno stesso della vita, il Dna. Nei progetti di Zimov, uri, tarpan, ma anche gli antenati del lupo e dell'alce popoleranno il «Pleistocene Park», grazie alle alchimie della clonazione. Rispetto al Jurassic Park dei fasti cinematografici spielberghiani, una differenza c'è: il T-rex, con il suo spaventoso corteggio di predatori e di fossili alati restituiti al nostro cielo, emergeva da un mondo alieno, su quale nessun occhio umano si era mai posato. Mammut e uri sono, in fondo, i nostri coinquilini di ieri. Gruppi di cacciatori li incalzarono con le torce, le rozze lance, le trappole primordiali. Si affollano, però, i consueti quesiti scientifici ed etici.

Con i cloni lanosi non riaffioreranno anche malattie e contagi sepolti anch'essi nel freezer siberiano? E, più in generale, abbiamo noi esseri umani i titoli per riaprire serrature che la natura ha blindato, millenni fa, per motivi che non ci sono del tutto chiari? Vale la pena di riflettere sui moniti di Platone, che in un mito del suo Protagora ci narra come Epimeteo, «colui che pensa dopo» (fratello di Prometeo, «colui che pensa prima», l'avveduto), il prototipo dello scienziato precipitoso, ambizioso e pasticcione, avendo avuto il malaugurato incarico di distribuire tra i futuri viventi le facoltà biologiche, sbagliò i calcoli, esaurì le risorse a disposizione, lasciando all'uomo il fardello della sua fragile nudità, e costringendolo a una faticosa rimonta, fatta di pazienza, di ingegno e di tecniche prudenti.

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