Ecco il grande sbaglio della sinistra sul Cav

Cavillano sulla sentenza Mills, senza riconoscergli il ruolo di padre fondatore del governo tecnico

L’ultima caricatura maligna di Berlusconi è quella di un uo­mo di Stato in declino che sacrifica tut­to, partito idee programma, per spal­marsi insinceramen­te sul governo Monti e fare i propri interes­si personali e azien­dali. Gli stessi repu­blicones, che lo de­scrissero come un autocrate o un egoarca a capo di un re­gime da abbattere con mezzi antiti­rannici, e non hanno ancora chiesto scusa ai frastornati lettori per la gran­de scemenza propinata loro lungo gli anni, non possono accettare la realtà politica di un signore che se ne va con un tratto di noncu­ranza e invece di coltivare risenti­menti e vendette commisura ai fat­ti il suo giudizio sul governo dei tecnocrati che ha contribuito a far nascere in un patto con il Quirina­le. Zizzaniosi come sono, cavilla­no sulla sentenza del processo Mills per cercare di ridarsi un to­no, e nel frattempo tacciono sulla verità delle cose, o la deformano pesantemente.

Vediamo di ripristinare il sen­so delle proporzioni, magari an­che a vantaggio della loro sereni­tà mentale. Dunque, tutti sanno che qualcosa di notevole è succes­so e qualcosa di notevole sta per succedere. Le pensioni sono sta­te cambiate strutturalmente, e la facoltà di licenziare per ragioni economiche sta per diventare una realtà.L’inquietudine febbri­le della sinistra si spiega da sola. Il primo governo Berlusconi del 1994 cadde sull’assalto giudizia­rio, ma il grilletto del colpo morta­le fu premuto dai sindacati e dal­la sinistra sul tema della riforma delle pensioni, una misura di buon senso sostenuta dall’econo­mista liberal Franco Modigliani. A un governo tecnico non parla­mentare e non eletto è riuscito in cinquanta giorni di fare quel che non era mai riuscito alle classi di­rigenti moderate e liberali, e in particolare a Berlusconi e ai suoi ministri, da decenni a questa par­te: il passaggio dal sistema di fi­nanziamento della previdenza detto «a ripartizione», troppo ge­neroso per un Paese progressiva­mente indebitato come il nostro e in generale per lo stato del be­nessere europeo, a quello detto «contributivo».

Ma ora si passa dalle pensioni al mercato del lavoro. Non si trat­ta ovviamente di autorizzare in generale licenziamenti immoti­vati, ma di liquidarenella sostan­za la tutela di un’altra epoca stori­ca e sociale, quella dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che rende difficile la messa in mo­bilità d­ei dipendenti e dunque im­pone una funesta cautela a chi ri­schia nell’impresa quando si trat­ta di assumerli. Una rigidità che, con l’allargamento a dimensio­ne mondiale dei mercati, rende molto meno competitivo il siste­ma economico italiano, e fa da barriera, magari non secondo gli esperti e i sociologi del lavoro tut­tofare ma certamente secondo gli imprenditori seri (da ultimo Sergio Marchionne), agli investi­menti domestici ed esteri in Ita­lia. I dati sulla disoccupazione giovanile e sul precariato dicono che il nostro è un sistema immobi­­listico, con false garanzie sui po­sti di lavoro improduttivi, ed emarginazione per i non garanti­ti. Una malattia mortale che solo un nuovo regime di ammortizza­tori sociali da costruire nel tem­po, diverso dalla logica della cas­sa integrazione, può curare (in­sieme alla caduta della clausola del reintegro giudiziario automa­tico per chi sia licenziato per ra­gioni economiche).

Se Berlusconi appoggia il go­verno Monti con una certa alacri­tà, e magari con un tantino di zelo che si potrebbe risparmiare, c’è ragione di credere, puramente e semplicemente, che il governo tecnocratico sta riuscendo a fare quello che Berlusconi voleva fare e non riuscì a fare, con le sue mag­gioranze di coalizione, con le sue opposizioni coltello tra i denti. O no? Ho già detto delle pensioni. Ma tutti ricordiamo che nel 2001, in occasione della prima grande crisi determinata tra le altre cose dall’11 settembre, Berlusconi fe­ce un «patto per l’Italia», proprio sull’articolo 18, con i sindacati moderati e solidaristici che ci sta­vano, la Cisl e la Uil, e fu fermato da una lunga e massiccia e minac­ciosa battaglia d’arresto guidata dalla Cgil di Sergio Cofferati e so­stenuta alla fine anche dalla soli­ta Confindustria deboluccia e conviviale, quella stessa che con la signora Marcegaglia ha di nuo­vo ciurlato nel manico dopo che un colosso come la Fiat, per poter investire in Italia, era dovuto uscirne e farsi come si dice gli affa­ri suoi, il suo business . La signora si avvicinò di recente ai sindacati contro un nuovo modello di rela­zioni industriali e si fece impieto­sa censora del berlusconismo con un piccolo opportunismo pe­­tulante, lo stesso che ora le sugge­risce di definire con malagrazia i lavoratori dipendenti da espelle­re dal processo produttivo una pletora di ladri e di fannulloni.

E volete che in questa situazio­ne, in un Paese in cui le posizioni riformiste sul lavoro, spesso usci­te dal seno della sinistra liberale degli Ichino e degli altri, si paga­no con la condanna a morte per il reato ideologico di intesa con il nemico (Ezio Tarantelli, Marco Biagi, Sergio D’Antona), Berlu­sconi non sostenga i provvedi­menti riformatori del governo Monti-Fornero? Non è una ragio­ne abbastanza seria, più seria del­le dicerie sulla giustizia e sulle aziende dell’ex premier, per una intesa politica con il successore che fa esattamente le cose che vo­leva fare il predecessore? La sini­stra e

Repubblica dovrebbero usarci la cortesia di grattarsi la lo­ro rogna e il loro risentimento, senza attribuire machiavelli e perfidie pro domo sua all’Arcine­mico. Lo hanno già fatto per anni, alla fine con scarsissimi risultati.

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