Cultura e Spettacoli

«Ecco il mio omaggio a Ellington»

L’artista, vincitore per la dodicesima volta consecutiva del titolo di jazzman dell’anno, pubblica «Overtime» con la sua big band

Antonio Lodetti

da Londra

Se viaggiasse nell’effimero mondo pop sarebbe una superstar. Quasi quarant’anni fa Miles Davis lo scopre in un club di Londra e lo porta alla sua corte; da allora Dave Holland è il simbolo del contrabbasso moderno, grande virtuoso, arrangiatore, compositore, l’unico in grado di mettere insieme anime diverse dell’avanguardia come Anthony Braxton e Sam Rivers (lo storico disco Conference of the Birds) e di unirsi con classe alle stelle del country (la Supersession con Vassar Clements, Norman Blake). Così Holland (l’inglese-americano che ha vinto per il dodicesimo anno consecutivo il referendum di Downbeat come miglior artista) continua a volare alto e ora, senza abbandonare il quintetto con cui sarà in Italia ad ottobre, pubblica Overtime, il secondo cd (dopo What Goes Around) alla guida di una big band con fuoriclasse come Chris Potter, Steve Nelson e Billy Kilson.
Come mai questo ritorno alle atmosfere delle big band?
«Iniziai quasi per gioco nel 2000, a Montreal, quando mi fu commissionata un’opera per orchestra che riscosse un grande successo e mi spinse a continuare su questa strada. Con un tocco d’attualità scrivo brani attuali nello spirito delle meravigliose sinfonie guidate da Duke Ellington, Count Basie, Walter Page, Cab Calloway che sono ancora l’anima del jazz».
Nella sua musica si fondono tradizione e sperimentazione.
«Il jazz è fatto di suoni radicali e tradizionali; il segreto è trovare l’equilibrio tra tensione e rilassamento dell’armonia e del ritmo. Il primo dovere dell’artista è fare cose che la gente non s’aspetta».
Overtime è il cd di debutto della sua nuova etichetta.
«Preferisco avere il pieno controllo sulla mia musica. Di solito le incisioni diventano proprietà delle case discografiche, spesso i brani esclusi dai dischi vanno persi o vengono buttati».
Entrò nella band di Miles Davis poco più che ventenne, cosa le ha insegnato?
«A mettere insieme concetti musicali apparentemente inconciliabili, e ad esprimermi con la testa e col cuore».
Lei è cresciuto in Inghilterra quando impazzava il blues.
«A 15 anni suonavo in un gruppo di r’n’b; nel ’64 mi trasferii a Londra e suonai con Alexis Korner e John Mayall, ma il mio idolo era Ray Brown ed ero attratto dalle armonie di John Coltrane e dagli arrangiamenti di Gil Evans: insomma dal jazz».
Che cos’è il jazz?
«Una musica di origine africana che ha conquistato il mondo trasmettendo emozione e cultura.

Una musica che bisogna stare attenti a non definire per non limitarne la libertà e per non perderne la purezza».

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