Il sistema idrico italiano fa acqua da tutte le parti. Non è solo una questione di acqua sprecata (circa 3-4mila miliardi di metri cubi), che in alcune zone del Paese supera il 50%, con un danno stimabile in 6 miliardi di euro. È pessima la gestione di tutta la filiera: rete idrica, depuratori, impianti di potabilizzazione eccetera. L’effetto? Una bolletta salata, gravata da balzelli palesi e non, un’acqua imbevibile e in molti casi scarsa. La malattia ha un agente scatenante: la mancata privatizzazione «vera» del sistema di fornitura e la mancata separazione tra chi possiede le infrastrutture (e quindi pianifica gli investimenti) e chi gestisce il sistema. La sinistra sostiene che questo porterà un aumento delle bollette, ma è una bugia che serve a non farle perdere il suo oligarchico potere.
Secondo una stima tutta la filiera vale 10 miliardi l’anno tra rete idrica da potenziare, conservare e riparare e tutta la gestione vera e propria (conduzione, fatturazione, call center, allacci e assistenza) che oggi è appannaggio di pochi soggetti.
Lo studio Althesys ha certificato che investendo 20 miliardi (4,2 miliardi per i materiali e 15,6 per l’installazione in acquedotti, fognature e depurazione) è possibile risparmiare 130 miliardi in 25 anni. Secondo il rapporto servono 51mila km di nuove reti (oltre 30mila di acquedotti e circa 21mila di fognature) e 170mila km di «riparazioni e rifacimenti», dei quali chilometri 125mila solo per gli acquedotti su 155mila km totali. Con 127mila euro al km, sostiene la ricerca, il sistema si riallineerebbe ai parametri europei.
In 25 anni, dicono i curatori della ricerca, i benefici per i cittadini sarebbero di 130 miliardi in 25 anni, senza considerare i costi di manutenzione e gli impatti ambientali.
Perché nessuno investe e siamo quasi al collasso? È un problema «politico» come spesso accade, figlio di un sistema di potere vicino alla sinistra che da 15 anni oppone una «resistenza» feroce alla legge Galli del 1994, voluta dal primo governo Berlusconi e a tutt’oggi in larga parte disattesa.
Che cosa prevedeva la Galli? La gestione diretta (e in economia) del servizio idrico da parte dei Comuni attraverso le municipalizzate pubbliche, a fronte però di oltre 8mila soggetti «gestori»; la costituzione di Ambiti territoriali ottimali (Ato) per macroaree territoriali, sufficientemente grandi da poter operare interventi di manutenzione e ristrutturazione in economia di scala su un numero di abitanti (più o meno 3 milioni) consistente e senza incidere negativamente sulla bolletta; l’obbligo di affidare la gestione del servizio idrico a un unico soggetto per ogni Ambito territoriale, attraverso una regolare procedura di gara.
La «sinistra» soluzione all’italiana, orchestrata abilmente dai governi rossi locali e dalla maggioranza di centrosinistra che ha governato dal 1995 al 2001, ne ha di fatto disinnescato tutti i possibili benefici. Gli Ato sono stati ricalcati sulle 103 province italiane, e non (ad esempio) su base regionale. Tanti, dunque, e con un numero di clienti insufficiente (350mila in media) a programmare gli investimenti necessari. Questo sistema ha portato a risultati disastrosi: secondo uno studio della Kpmg su un campione pari a oltre il 25% della rete idrica, le criticità del sistema sarebbero parecchie: una sperequazione tra costi operativi che arriva fino all’88% (Ato del Medio Valdarno) e un prelievo in bolletta per investimenti pianificati (e quasi mai realizzati) anche dell’82% inferiore al fabbisogno reale (Ato Roma 2); una perdita di rete del 53% (Acquedotto pugliese) contro una media nazionale del 30%. Un affronto, specie se parametrato alla media Ue dei Paesi avanzati che oscilla tra il 15% e il 20%.
La naturale conseguenza della pessima gestione della rete idrica si ripercuote sulla bolletta, con risultati che fanno riflettere: a fronte di una tariffa media di 1,18 euro per metro cubo (dato 2007) si arriva a 1,78 euro (Alto Valdarno) o si precipita a 0,82 euro (Città di Milano). Ma non basta. Secondo lo studio, a parità di tariffe e costi di gestione l’Ato di Bacchiglione, che comprende 140 comuni appartenenti alle province di Padova, Venezia e Vicenza, investe molto più dell’Ato unico Sardegna, mentre l’Acquedotto pugliese ha una tariffa del 52% superiore all’Ato Roma 2 a parità di utenti e con una percentuale d’investimento molto più bassa. Secondo Kpmg servono 55 miliardi. Insomma, le bollette non diminuiscono ma la rete va a pezzi. E i costi reali lievitano, a seconda anche delle convergenze politiche locali.
Ad aggravare ulteriormente il quadro, il vizio d’origine del «conflitto d’interessi» tra gli Ato e le ex municipalizzate, che spesso si scambiano i manager. E che, in spregio alle norme italiane e al diritto comunitario, hanno dato in gestione (e le procedure d’infrazione della Ue non si contano...) le reti senza gara. A chi? A quelle municipalizzate locali alle quali è stato consentito un furibondo shopping che ha portato a decine di fusioni e acquisizioni. Rendite di posizione ingigantite dalla facoltà di trasformarsi in Spa, e dunque di godere di benefici fiscali e di quotarsi in Borsa, portando sul mercato anche la «dote» composta da acquedotti e fognature: beni demaniali che hanno indebitamente ingrossato il portafoglio di un soggetto ex pubblico. E anche in questo caso la Ue non l’ha presa benissimo, anzi. Oltre alle procedure per gli affidamenti diretti è scattata anche l’ipotesi di «aiuti di Stato» alle società pubbliche.
A mettere una prima pezza allo scempio ci ha pensato il governo Berlusconi del 2001, che ha definitivamente proibito la pratica dell’affidamento diretto, riformando l’articolo 113 del Testo unico sugli Enti locali. Alla Ue la modifica non è bastata e ha preteso un ulteriore correttivo, introdotto nel 2003, che per contro ha garantito alle grandi ex municipalizzate una ulteriore raffica di benefici, come la proroga al 31 dicembre 2006 (poi ulteriormente allungata dal secondo governo Prodi al 31 dicembre 2008) degli affidamenti senza gara e l’introduzione di una pratica, l’affidamento In House, (la stessa cosa ma con un altro nome...), a società pubbliche come «alternativa» alle regole di mercato. Una modalità del tutto eccezionale che in Italia ormai è prassi consolidata, visto che il mercato in questi ultimi anni non è mai stato messo in condizione di competere.
Anche la legge di riforma dei servizi locali, il dl Ronchi, si è dovuto «adeguare» al sistema. La norma prevede la liberalizzazione di tutti i servizi pubblici locali ma c’è una «clausola» che di fatto ne azzera i benefici: tutti gli appalti affidati senza gara devono decadere il 31 dicembre 2010, a meno che il Comune non ceda ai privati almeno il 40% del proprio capitale o se l’azienda è quotata in borsa.
E questo spiega lo shopping finanziario delle più importanti municipalizzate: un risiko sotterraneo tra società «rosse» che la riforma, anziché scoraggiare, ha (involontariamente?) favorito.felice.manti@ilgiornale.it
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