Quando un nuovo allievo si presentava al suo cospetto, pare che il filosofo Diogene (il maggior esponente del Cinismo, vissuto nel IV secolo a.C.) gli imponesse un esercizio: andare in giro per Atene trascinando un'aringa morta legata a uno spago.
Un altro filosofo cinico, Cratete, obbligò il neo discepolo Zenone ad accompagnarlo per una passeggiata, tenendo tra le braccia un vaso pieno di lenticchie cotte. A un certo punto, in mezzo ai passanti, Cratete ruppe il vaso, che si rovesciò addosso a Zenone. Due azioni estreme compiute con lo scopo di vincere la vergogna e il timore di essere giudicati male dagli altri. Già nella Grecia di 2300 anni fa, infatti, i Cinici avevano capito che un grande ostacolo alla piena realizzazione di sé era la paura sociale. Una paura che tutti noi proviamo o abbiamo provato.
Da dove deriva? In un certo senso può essere considerata un meccanismo che la natura ci ha fornito per la nostra sopravvivenza. L'uomo, infatti, è un animale sociale, non può vivere da solo, ha bisogno del rapporto con i suoi simili. Deve quindi attuare comportamenti che siano riconosciuti come validi e accettati da chi gli sta intorno. Perché, nel caso in cui venisse isolato da tutti, sarebbe destinato alla morte.
La natura, dunque, gioca il suo ruolo nel farci temere il giudizio del prossimo, ma spesso anche i genitori hanno una grossa responsabilità. Molti, infatti, tendono a educare i bambini a non deludere le loro aspettative e quelle dell'ambiente in cui vivono. E sa da un lato è fondamentale insegnare ai figli ad assumere comportamenti socialmente corretti, dall'altro frasi come: «Non deludermi» o «Non fare brutta figura!», ripetute insistentemente, non fanno altro che aumentare l'insicurezza dei ragazzi, impedendo loro di essere veramente se stessi. Paradigmatico il risultato che un comportamento del genere provoca per esempio nella monaca di Monza, che rinuncia alla sua vera vocazione per seguirne un'altra, decisa per lei dalla famiglia. E così facendo si rovina.
Un grande maestro contemporaneo di autoconsapevolezza e di spiritualità, come il Dalai Lama, ci insegna che se vogliamo raggiungere la felicità, dobbiamo imparare che il nostro valore non dipende da indicatori instabili come l'opinione degli altri. Con l'autocomprensione, con la visione realistica delle nostre capacità, possiamo ottenere una notevole forza interiore, che ci permetterà di reagire bene ad eventuali critiche esterne.
Esempio di chi sa sviluppare un'autonomia psichica e agisce senza adeguarsi al conformismo è il gabbiano Jonathan Livingston, che lascia lo stormo per imparare davvero a volare. Poi decide di insegnare ad altri discepoli tutto quello che ha appreso. Interessanti le osservazioni che sull'argomento fa Lucio Della Seta, autore del libro «Debellare il senso di colpa» (ed. Marsilio): lo psicanalista junghiano definisce il timore di essere giudicato male dagli altri «senso di colpa». E asserisce che questo sarebbe la causa principale nello sviluppo dell'ansia. Quando noi temiamo di essere considerati negativamente e ci sentiamo inadeguati, il nostro corpo mette in moto meccanismi ancestrali simili a quelli che si sviluppano in una situazione di pericolo concreto e che favoriscono la fuga e la lotta: il ritmo cardiaco e la forza di contrazione del cuore aumentano, per fare affluire più sangue ai muscoli e al cervello; l'intestino si mobilita, per eliminare il peso ingombrante delle feci; i bronchi si dilatano, per favorire la ventilazione. Poiché in realtà il pericolo che corriamo (quello del giudizio altrui) è immaginario (si trova infatti nella nostra mente) e non concreto, noi non possiamo né lottare né fuggire.
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