Ecco la vera storia del nostro «stellone»

Caro Granzotto, in queste ultime settimane ho più volte sentito riferimenti allo «stellone» nel quale riporre serenamente la fiducia. Ma perché «stellone»? C’è una stella protettrice dell’Italia? Mi piacerebbe saperlo.


E io l’accontento, caro Mannino. Lei deve essere assai giovane (cioè, non «giovane» come Veltroni, che batte i cinquantatré) per ignorare uno fra più convenzionali modi di dire. Segno che è in via di estinzione, che ha fatto il suo tempo. Al dunque: lo «stellone» è quello rappresentato nel simbolo della Repubblica. Oggi poco leggibile perché impastato in un discutibile fastello di simboli, ma che nel primo degli stemmi d’Italia, anno 1890, saltava, come si dice, agli occhi. La stella, il più delle volte raggiante, fu per altro uno dei più popolari «marchi» del Risorgimento e compariva immancabilmente in capo alla trionfante figura dell’Italia, nelle carte geografiche De Agostini appese in tutte le aule scolastiche, nelle raffigurazioni allegoriche dei padri della Patria - Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi e Mazzini - e in ogni altra iconografia unitaria. Fu allora che si affermò il modo di dire popolare «speriamo nello stellone», al quale affidarsi nei momenti difficili perché grazie a lui tutto si sarebbe italianissimamente aggiustato. Tuttavia anche in versione scaramantica lo stellone non ebbe vita facile: molti vi vedevano un palese richiamo a quella massoneria (la stella è uno dei principali simboli massonici) che ebbe parte non trascurabile nel processo unitario e che dunque, così si ragionava, aveva imposto la propria firma al prodotto finito. Però rimase lì dov’era anche se, dal ’22 in avanti e per una ventina d’anni, un po’ messo in ombra da altra emergente allegoria. Fatta la Repubblica, i padri costituenti pensarono bene di voltar pagina anche nella simbologia ed anche se a prima vista sembrava una faccenda da sbrigare in quattro e quattr’otto, essendosene impadronita la brontoburocrazia trascorsero due anni (e due concorsi) prima che il Paese avesse il suo nuovo «brand».
Al primo dei concorsi (ottobre 1946: primo premio 10mila lire) risposero 341 artisti. Cinque furono gli eletti i quali dovettero nuovamente cimentarsi ma stavolta, per non correr rischi, su un tema imposto dal governo: una cinta turrita in forma di corona, un po’ di alloro, un po’ di quercia e, naturalmente, la stella. Vinse Paolo Paschetto da Torre Pelice, professore di ornato. Ma siccome a ben guardare la sua «cinta turrita» assomigliava troppo a una tinozza, fu indetto un secondo concorso, con la preghiera di aggiungere, alla cinta turrita, all’alloro, alla quercia e alla stella, anche una ruota dentata, simbolo del lavoro. E rivinse Paolo Paschetto (stavolta, 50mila lire). Cioè, vinse e non vinse perché il suo bozzetto fu poi rimaneggiato prima di essere presentato all’Assemblea Costituente, che non gli fece grande festa, bruttino com’era, ma si rassegnò a votarlo. Trascorsi altri mesi per stabilirne le dimensioni e i colori, il 5 maggio del 1948 ebbe finalmente la sua consacrazione ufficiale. Però non la sua forma definitiva, che ha continuato a subire piccole modifiche (per dirne una, lo stellone ora si fonde con i raggi della ruota dentata) pur seguitando a restare un pastrocchio che smentisce la nostra vantata eccellenza nel design, nella grafica.

Però quello è e quello tocca tenerci.

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