Continua il pressing di Air France per impadronirsi di Alitalia. Parigi ha di fronte un bivio che si materializzerà il prossimo 16 novembre, giorno di chiusura dell'aumento di capitale: le scelte sono due. O versare la propria quota e sottoscrivere l'inoptato fino a raggiungere al massimo il 49,9% del capitale di Alitalia e comandare a pieno titolo (ma senza consolidare i debiti nella holding); oppure astenersi dall'aumento e lasciare che si acceleri da sola la situazione di estrema difficoltà della compagnia, una vera spirale, mettendosi in attesa in una sorta di Aventino; in questo caso, il suo rientro in campo sarebbe solo rinviato.
Che cosa può far orientare Air France per l'una o per l'altra decisione? L'accettazione, o meno, delle sue condizioni, che si possono ricomprendere sostanzialmente in tre punti: 1. la riscrittura completa del piano industriale di luglio, con il quale il nuovo ad Gabriele Del Torchio aveva tentato di imboccare orgogliosamente un'improbabile strada stand alone, di autonomia; 2. la ristrutturazione del debito con banche e fornitori, ma soprattutto con le prime; 3. una revisione della governance che permetta ai soci francesi di comandare senza interferenze. Le discussioni sono pressoché quotidiane e nei giorni scorsi hanno trovato sfogo anche in un paio di lettere ruvide dei vertici di Parigi a quelli di Roma, per le quali Alitalia minaccia ora vie legali.
I ragionamenti di Air France nascono da un retropensiero profondo: vogliamo quello che è stato già accordato alla cordata di Cai cinque anni fa. In altre parole: se allora la società è stata ripulita dai debiti, alleggerita di personale e confezionata con alcuni regali a spese di contribuenti e mercato (la cassa integrazione per 7 anni, la protezione dalla concorrenza sulla Milano-Roma), perché ora non dovrebbero essere riconosciute condizioni analoghe anche ad Air France?
Le trattative, anche se in maniera non esplicita, fanno riferimento all'esperienza di allora; è come dire: si può fare, tant'è che è già stato fatto. Ecco allora che la compagnia guidata da Alexandre de Juniac insiste per dettare il modello della nuova Alitalia: più piccola, più snella, tutta orientata verso il Charles de Gaulle. Serviranno 2-3-4mila esuberi? Se ne faccia carico il governo: lo ha già fatto in passato. Le banche hanno aiutato concretamente, anche nella parte ideativa, la vecchia operazione: perché non dovrebbero ripetere oggi, nuovamente, un atteggiamento di apertura? Si dirà: allora l'obiettivo era quello di salvare l'italianità. Vero: ma quell'insuccesso oggi pone l'asticella a un livello più basso: salvare il salvabile.
Su queste linee di fondo si muovono i vari protagonisti: Air France ha una posizione di forza grazie all'integrazione già esistente (e difficilmente smontabile) tra le due compagnie; sa di non temere, di fatto, alternative; il governo vuole ridurre al minimo l'impatto sociale e, con uno scatto d'orgoglio, ha persino messo in gioco le Poste, che con Alitalia hanno ben poco da spartire, il cui vero ruolo è solo quello di dimostrare che il governo (leggi: il sistema-Italia) c'è. Intanto i piccoli soci vivono settimane turbolente e cercano accordi tra di loro per non farsi diluire troppo e fare massa critica in posizione difensiva. Qualcuno pensa ancora ad Aeroflot o Etihad, ma è molto difficile che queste possano intervenire senza il placet del loro alleato Air France.
Intanto il presidente Roberto Colaninno è volato a New York e Washington, dove gli è stato anche conferito un premio (per Piaggio, s'intende, non per Alitalia). Se abbia avuto modo di incontrare i vertici di Delta, l'alleato Usa che potrebbe avere un ruolo di mediazione nel braccio di ferro con Air France, questo non si sa.
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