L'aria sui mercati è d'improvviso diventata gelida. Spariti i sorrisi del rialzo, sostituti da una contabilità cimiteriale ben espressa dai 220 miliardi bruciati ieri dalle Borse europee nella riproposizione del più classico dei classici: il venerdì nero. Crolli ovunque, amplificati col passare delle ore dalla crescente avversione al rischio che ha riportato tensione anche sugli spread e Wall Street sotto i 16mila punti per la prima volta dal 18 dicembre scorso. Un quadro a tinte fosche in palese contrasto con le parole pronunciate a Davos da Mario Draghi sul miglioramento «impressionante» dei mercati (il 50% in più delle Borse e il crollo dei rendimenti in Italia e Spagna) dopo la promessa che la Bce avrebbe fatto tutto il necessario a difesa dell'euro. In questo modo, si sono «ridotti i rischi per tutti», seppure la ripresa sia «ancora fragile, debole e mal distribuita».
A far ripiombare i mercati in quell'atmosfera plumbea così familiare durante l'era glaciale della recessione, la crisi che sta investendo le economie dei Paesi emergenti, schiacciandone le valute nazionali. Due le cause: la prima è riconducibile ai segnali di rallentamento più forti del previsto arrivati giovedì scorso dalla Cina, la cui sete crescente di materie prime è stata il volano per lo sviluppo di nazioni come il Sudafrica, che ha visto il rand scendere sotto quota 11 per un dollaro per la prima volta dal 2008, e il Brasile, colpito dal ribasso del real più forte degli ultimi 12 anni. Ma al tappeto è finita anche la lira turca, complice il grave scandalo politico-finanziario che ha coinvolto il governo. Un terremoto valutario che non ha risparmiato soprattutto il peso in Argentina, ai minimi dal 2002, dove come contromisura per arginare il dissesto economico il governo ha deciso di permettere dopo due anni l'acquisto di dollari anche da parte dei privati. Il Fondo monetario ha già offerto il proprio aiuto a Buenos Aires, anche se dal 2004 si sono interrotte le relazioni ufficiali.
È però soprattutto l'evoluzione del tapering da parte della Federal Reserve, destinato a far rialzare in prospettiva i tassi americani e dunque a frenare la politica ultra-accomodante, che spinge la speculazione internazionale a disinvestire massicciamente dai Paesi più rischiosi. La settimana prossima il board della banca centrale Usa si riunirà per l'ultima volta sotto la presidenza di Ben Bernanke, che dal primo febbraio lascerà l'incarico a Janet Yellen. Gli analisti non escludono un ulteriore taglio agli aiuti di 10 miliardi di dollari al mese, che ridurrebbe gli stimoli a 65 miliardi. Ancora molti, ma forse non abbastanza per sostenere le monete e la crescita dei Paesi emergenti. Nei mesi scorsi, l'istituto di Washington ha sempre ribadito che l'exit strategy sarebbe stata graduale, ma nonostante tali rassicurazioni, nel 2013 i deflussi dalle aree emergenti sono ammontati a 59 miliardi di dollari, quando invece l'anno prima i flussi erano stati positivi per 119 miliardi. Già la scorsa estate, infatti, e per più giorni, le cronache economiche si erano occupate dell'esodo di capitali dalle zone considerate fino a qualche mese prima molto promettenti. Allora, il tutto sfociò in un apprezzamento del dollaro e in un aumento dei tassi sui bond americani.
Ora, invece, la situazione appare più delicata. E a farne le spese non sono soltanto le Borse, ma anche i titoli di Stato dei Paesi periferici. Lo spread tra Btp e Bund è infatti risalito ieri a 226 punti rispetto ai 214 della chiusura di giovedì.
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