Le Borse affondano, lo spread fa paura

L’Europa brucia 170 miliardi, con Milano che crolla del 5%. Btp-Bund oltre quota 400: non accadeva da due mesi

Le Borse affondano,  lo spread fa paura

Come birilli abbattuti. Uno dopo l’altro. Dalle vendite, da quel fuggi-fuggi generale sempre identico quando la ritirata dai mercati è disordinata e caotica, generata com’è dalla paura. E paura è stata ieri ovunque, primo giorno di ripresa dopo la pausa pasquale. Nessuna resurrezione: piuttosto una via crucis finanziaria, tra indici in progressivo avvitamento e la febbre da spread tornata alta. Due sole cifre bastano a riassumere la caduta di massa: i 170 miliardi di euro andati in fumo (oltre 17 solo a Piazza Affari), ennesima contabilità un po’ cimiteriale ai tempi della crisi, e lo scatto fino a 404 punti del differenziale di rendimento tra i Btp e l’inossidabile Bund tedesco. Lancette indietro di due mesi, una regressione fulminea che ci allontana dall’isola di tranquillità cui ormai eravamo abituati.

Altrettanto inquietante è però quel -5% scolpito accanto all’indice della Borsa di Milano, scivolato sotto quota 15mila e ripiombato quindi ai livelli del novembre scorso. Una vera débâcle che ha indotto la Consob a mettere sotto la lente scambi e flussi di vendita. Oggi l’intera Piazza Affari vale appena 344 miliardi, 100 in meno di Apple. Una manciata di sedute da infarto ha avuto l’effetto di una gomma che ha cancellato la manovra e la riforma del mercato del lavoro del governo Monti, ma anche la concessione alla Grecia della seconda tranche di prestiti e l’intesa sul rafforzamento del fondo salva-Stati. Tutto come prima. Qui come altrove, in un malessere collettivo capace di risucchiare Parigi e Madrid (-3%), Francoforte (-2,5%) e Londra (-2,24%).

A seguire le tracce del crollo si finisce per tornare sulla Spagna, in bilico tra l’Sos alla comunità internazionale e il coraggio (o l’incoscienza?) di chi vuole risanarsi senza aiuti, al punto da decidere tagli supplementari per 10 miliardi di euro dopo la manovra da 27 miliardi di fine marzo. Certo lo spread spagnolo a 434 punti non rassicura, nè può essere usato dall’Italia - secondo i mercati a rischio contagio - per sostenere che siamo messi meglio.

Il problema è che per alcuni spagnoli e italiani stanno sulla stessa barca. Grossi fondi statunitensi, preoccupati per il focolaio spagnolo e intenzionati a passare alla cassa dopo il recente rally, si sarebbero alleggeriti di carta «periferica», anche italiana. Di sicuro non aiuta il duello dialettico tra Roma e Madrid, iniziato da Mario Monti («la Spagna è peggio di noi, non ha posto attenzione sui conti») e proseguito ieri dal governatore della Banca centrale spagnola, Miguel Angel Fernandez Ordonez («la retromarcia sulla riforma del lavoro sta creando enorme ansia»). Anche perché questo scontro viene interpretato come un segno di debolezza. La stessa fragilità che il New York Times, mettendo altro sale sulle ferite, individua nelle banche italiane e iberiche, colpevoli di aver in pancia troppi Btp e Bonos. Una bacchettata diretta anche alla Bce, che ha messo cash per 1.000 miliardi nelle mani degli istituti europei. Quelli tricolori, da un po’ di sedute, stanno sbandando vistosamente in Borsa seguendo un copione che si è ripetuto anche ieri, con tre big come Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banco Popolare che hanno lasciato sul terreno tra il 7 e l’8% del loro valore mentre in Spagna Santander ha limitato i danni al 3,9% e Bbva al 3,6%.

Ma le sofferenze di Wall Street (-1,5% a un’ora dalla chiusura) mostrano che il problema non è solo circoscritto all’Europa. Negli Stati Uniti la fiducia delle imprese è calata a sorpresa, i posti di lavoro creati non bastano ancora a irrobustire la ripresa. Poi, basta un’occhiata alla Cina per capire che il motore dell’economia mondiale non gira a pieno ritmo. Nell’ex Impero Celeste l’import cresce meno del previsto, minando le speranze di vedere il gigante asiatico come un possibile puntello della crescita globale.
Di questa stampella avrebbe soprattutto bisogno Eurolandia, impegnata com’è a stringere la cinghia sui conti pubblici. Esportare serve per alimentare la crescita. Ma se si prosciuga il canale cinese, allora si complicano anche le prospettive di risanamento dei bilanci: una crescita più debole porta minor gettito fiscale. Un rebus che riguarda in prima battuta l’Italia, dove la recessione continuerà a mordere anche nei prossimi mesi.

La conferma è arrivata dal

Superindice dell’Ocse, il «barometro» che mostra le prospettive economiche dei prossimi sei mesi, sceso da 99,5 di gennaio a 99,4. Si tratta del secondo calo negli ultimi due mesi. Segno che la primavera è ancora lontana.

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