L'alternanza di bastone e carota mal si addice a Donald Trump. Il randello gli è più congeniale. Può dunque risultare ingannevole il tweet con cui ieri il tycoon ha sentenziato che «la Cina non è un nostro problema, lo è la Federal Reserve. Vinceremo comunque». Ora, perfino i sassi sanno che da mesi la Fed e il suo presidente, Jerome Powell, sono finiti sulla black list della Casa Bianca. La decisione presa mercoledì scorso dalla banca centrale Usa di sospendere il taglio dei tassi, ha allargato la frattura fra due dei poteri più forti negli Stati Uniti.
The Donald ha un chiodo fisso in testa: pretende un costo del denaro sotto zero. «Dovremmo avere tassi di interesse inferiori rispetto a Germania, Giappone e tutti gli altri. La Fed ci mette in uno svantaggio competitivo, dollaro e tassi fanno male», ha cinguettato. Un po' di memoria storica non guasta: era stato sempre lo stesso Trump a criticare Janet Yellen, durante le presidenziali del 2016, per aver mosso troppo al ribasso le leve monetarie.
Questo insistere sulla necessità di ulteriori alleggerimenti, rivela il timore di trovarsi fra i piedi una recessione nei prossimi mesi. Più che le guerre, sono state le crisi economiche a mandare a casa i presidenti americani. Da ieri alle prese anche con l'avvio delle procedure di impeachment, è un rischio che Trump corre se non verrà trovato un accordo commerciale con Pechino. L'intesa preliminare raggiunta qualche settimana fa è scritta sull'acqua, nonostante la sospensione dei dazi Usa da 250 miliardi di dollari che sarebbero dovuti entrare in vigore il 15 ottobre. Da parte sua, Pechino si è impegnata a acquistare un controvalore di 50-60 miliardi di prodotti agricoli a stelle e strisce, un punto su cui la Casa Bianca ha fatto pressione per recuperare consensi nelle zone rurali del Paese. Sembra tuttavia che i cinesi non abbiano neppure iniziato a rispettare gli impegni presi.
L'unico elemento positivo è che il dialogo fra i due rivali non si è interrotto: i rispettivi team di negoziatori si sentiranno oggi al telefono. Bloomberg raccontava però ieri di una Cina perplessa sulla possibilità di stipulare un deal globale con l'America a causa della «natura impulsiva» di Trump. Altri rumor rivelano che il Dragone ritiene «politicamente irrealizzabili» i cambiamenti strutturali chiesti da Washington e non pare volersi piegare nonostante le cattive notizie che arrivano dalla sua economia (altra contrazione dell'indice Pmi manifatturiero in ottobre, sceso da 49,8 a 49,3 punti) e dallo scivolamento in recessione di Hong Kong dopo cinque mesi di proteste anti-governative. I cinesi vorrebbero l'annullamento dei dazi americani destinati a entrare in vigore il 15 dicembre su prodotti come smartphone e giocattoli e la rimozione totale delle tariffe punitive una volta arrivati nella Fase 2. Sembra che la Casa Bianca sia disposta ad assecondare il primo punto, che vale 34 miliardi di dollari, anche per evitare ripercussioni sui consumi (peraltro già non brillanti) in vista della stagione natalizia, ma la strada resta in salita. L'annullamento, in seguito ai disordini in corso, del vertice Apec di metà novembre a Santiago del Cile, luogo designato per la firma dell'intesa, ha complicato la situazione. «La nuova sede verrà annunciata presto. Il presidente Xi e il presidente Trump metteranno la firma!», ha annunciato il leader Usa. Un ottimismo forse di facciata. The Donald potrebbe invece essere tentato a dichiarare falliti i negoziati con Pechino per mettere la Fed spalle al muro.
La prevedibile reazione dei mercati e le ricadute negative sulla crescita non lascerebbero a Powell alternativa, se non quella di riprendere in mano la scure e tagliare i tassi. Il gioco, ovviamente, è di quelli pericolosi. E alto è il rischio di farsi male.
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