Economia

Con la crisi al vertice ora la Bpm rischia il commissariamento

Sulla Banca Popolare di Milano si allunga lo spettro del commissariamento. L'uscita, peraltro prevista, di Piero Montani, che lascerà la carica di ad per andare a Carige, ha innescato una serie di reazioni a catena che hanno portato la banca milanese in un vicolo quasi cieco. Ieri Montani ha dato le dimissioni, sembra per «giusta causa», e il consiglio di gestione ha deciso di affidare a Davide Croff le sue deleghe, ma ad interim. Una scelta dettata dalla necessità di non lasciare la banca senza una guida operativa. Ma la nomina di Croff, che già siede nel consiglio, è soltanto a tempo. Ciò significa che la ricerca di un nuovo amministratore delegato continua.
La soluzione che è stata trovata ieri sera non cambia la sostanza dello scontro in atto. Il motivo è sempre lo stesso: la perenne contrapposizione tra i soci-dipendenti e i sindacati interni da un lato con l'attuale management, guidato dal presidente del consiglio di gestione Andrea Bonomi con alle spalle i fondi azionisti, dall'altro. La governance della Bipiemme ripropone questo schema ogni tre anni, cioè quando si avvicina la scadenza dei consigli, ora diventati due (sorveglianza, espressione dei soci e dunque dei dipendenti, e gestione che è invece nelle mani di Bonomi e dei fondi). Come dimostrano tutte le recenti svolte al vertice, nell'imminenza dell'assemblea i poteri interni della banca, che controllano l'assise dei soci quasi al 100%, preparano il ribaltone portando nuovi uomini al vertice. Questi si propongono di cambiare finalmente le cose. E per un po' ci riescono. Ma alla fine del triennio lo schema si ripete. E così via, in modo da lasciare sempre immutato il potere dei dipendenti.
Ora si è arrivati a questo punto con qualche mese di anticipo sulla scadenza naturale di aprile perché l'uscita di Montani è stata per Bonomi l'occasione di proporre un rinnovo anticipato del cdg. Così da garantire alla gestione quella stabilità necessaria per le prossime enormi sfide: piano industriale, aumento di capitale e stress test. Viceversa, trovare un nuovo ad per soli 6 mesi, fino ad aprile, diventa difficile e, visti i precedenti, instabile. Ed è qui che è nato il braccio di ferro tra Bonomi e la Sorveglianza.
Una contrapposizione che ha via via assunto il sapore del redde rationem: se i sindacati interni si opponessero all'anticipo, di fatto sfiducerebbero Bonomi e il suo operato, scatenando facilmente le ire di Bankitalia. Per due motivi: primo perché lo statuto impone l'immediata individuazione del capo azienda, come chiede appunto Bonomi; secondo perché la Vigilanza, dopo la sua ultima ispezione, sanzionando il consiglio di sorveglianza e lodando invece quello di gestione, ha già lanciato messaggi ben precisi. Ecco perché il commissariamento è un'ipotesi verosimile. Mentre non pare percorribile quella proposta dai sindacati, che al candidato forte alla guida della banca, l'ex di Banca Intesa, Giuseppe Castagna, avrebbero proposto un mandato di sei mesi, ma con la garanzia di una copertura economica triennale da associare al parallelo incarico di direttore generale. E infatti ieri si è saputo che Castagna, dopo un incontro con il presidente del cds, Giuseppe Coppini, avrebbe posto paletti precisi: la richiesta di riformulare il piano industriale di Montani (in calendario per il 12 novembre) entro metà dicembre e il rinnovo anticipato del consiglio di gestione per entrare con un mandato pieno.
Sembra un punto a favore di Bonomi. La nomina di Croff ad interim non risolve il problema.

Né attenua lo scontro che continuerà nei prossimi giorni.

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