Il crollo di Tokio spaventa l'Europa

Il crollo di Tokio spaventa l'Europa

Dopo aver danzato sul filo sottilissimo dell'economia reale e fatto surf al rialzo sull'onda di liquidità creata dalle banche centrali, ieri le Borse sono crollate. Il botto è stato forte, come succede quando si pigia sul pulsante del panic selling: Tokio, l'innesco dell'incendio, è collassata sotto il peso di una picchiata vertiginosa dell'indice Nikkei di oltre 1.140 punti. In termini percentuali la maxi-flessione equivale a un -7,32%, un disastro che non trova precedenti se non nel drammatico -10,55% del 15 marzo 2011, quando il sisma e lo tsunami, con la conseguente crisi nucleare di Fukushima, misero in ginocchio l'intero Giappone. Poi, per effetto dei fusi orari, è toccato all'Europa capitolare di fronte al fuggi-fuggi generale degli investitori, costato 163 miliardi in termini di capitalizzazione. A farne le spese è stata soprattutto Piazza Affari, dove il Ftse-Mib è arretrato del 3,06% ancora una volta a causa del rilevante peso specifico sull'intero paniere dei titoli bancari (-4,4% l'indice di categoria).
Ma i ribassi non hanno risparmiato nessuno tra i principali listini del Vecchio continente, tutti appesantiti da perdite superiori al 2%, nonostante la tenuta di Wall Street (piatta a un'ora dalla chiusura) abbia dimostrato la scarsa correlazione tra il sell-off di ieri e i timori (infondati) di una rimozione a breve delle misure di stimolo da parte della Federal Reserve. In realtà, quanto è accaduto al Kabutocho (e di riflesso all'Europa) può essere letto in due modi. Il primo, riservato agli inguaribili ottimisti, è che il mercato nipponico aveva corso troppo, mettendo insieme in sei mesi un guadagno dell'80% e del 50% da inizio anno. Insomma: una salutare correzione, peraltro auspicata dalle stesse autorità giapponesi, che sarebbe stata favorita dalla discesa dell'indice manifatturiero cinese sotto i 50 punti, la linea di demarcazione tra espansione e contrazione dell'attività. Il rallentamento (con probabili implicazioni sul Pil della Cina del secondo trimestre) è chiaro e può legittimamente preoccupare un Paese come quello del Sol Levante fortemente dipendente dall'export.
Basta però solo questo elemento a spiegare il giovedì nero? Difficile. È interessante infatti notare che ieri, dopo la prima ora di scambi, il Nikkei aveva accumulato un progresso del 2%. Poi, qualcosa si è inceppato. E quel qualcosa riguarda l'andamento del mercato obbligazionario, con i tassi sui Jgb decennali (i bond di Stato nipponici) schizzati a un certo punto all'1%. La Banca del Giappone è stata così costretta a intervenire con un'iniezione di liquidità straordinaria da 2.000 miliardi di yen per frenare una volatilità eccessiva che dura ormai da un mese e mezzo: da inizio aprile, i rendimenti sono passati dallo 0,3% a ridosso dell'1%. Si tratta di un livello insostenibile con un rapporto debito-Pil del 240%. Tuttavia, chi è causa del suo mal pianga se stesso: se i tassi salgono, è perchè gli investitori giapponesi si stanno liberando di bond poco redditizi. Così i prezzi crollano, e i rendimenti salgono.

Considerata la fortissima correlazione tra il Nikkei e il mercato dei bond nipponico, la vera causa del tonfo della Borsa sembra quindi riconducibile al deflusso di fondi dall'azionario all'obbligazionario. Non è un buon segno, perchè indica l'impossibilità di coniugare un obiettivo di inflazione al 2% con quello di tassi sempre più bassi. L'Abenomics rischia di diventare presto un frutto avvelenato. Per tutti.

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