L'Italia come gli Usa. Non si è ancora spento lo choc della dichiarazione di default da parte di Detroit (istanza che secondo un giudice del Michigan è da ritirare «in quanto incostituzionale»), che anche da noi si iniziano a fare i conti con le situazioni a rischio. In Italia, a questo proposito, si parla di dissesto finanziario, parola più gentile, ma solo in apparenza, rispetto a default o bancarotta. Si ha uno stato di dissesto quando l'ente non può onorare i debiti o assolvere le funzioni indispensabili di sua competenza.
Per la comunità significa tasse più alte e servizi all'osso anche se, forti in genere di interventi statali (spesso in deroga alle normative), i piani di riequilibrio sono più morbidi rispetto agli Usa. I posti di lavoro delle Pubbliche amministrazioni coinvolte sono salvi (ma non si calcola in queste statistiche il sacrificio dell'indotto o dei contratti a termine) e i servizi comunque garantiti (ma evidentemente ridotti).
Il 2013, però, potrebbe essere un annus horribilis su questo fronte. A dichiararlo è stato, in più di un'occasione, il ministro Graziano Delrio, l'ex presidente di Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani al cui vertice è, da questo mese, Piero Fassino), che ha parlato di una cinquantina di richieste di pre-dissesto da parte di alcune grandi città, tra cui capoluoghi di provincia.
Complice la spending review, la rigida normativa che disciplina il patto di stabilità e la recessione, il pericolo che su tutto il perimetro della Penisola divampino le insolvenza degli enti locali è elevato. Lo si vede anche nei numeri: negli ultimi due anni le richieste di commissariamento sono passate da una-due l'anno a 25.
Complessivamente, dall'entrata in vigore della normativa, nel 1989 (data in cui per decreto legge è stato introdotto nel nostro ordinamento l'istituto del dissesto finanziario), sono stati 460 i comuni finiti ko, di cui la maggior parte in Calabria (131) e in Campania (121). Altri potrebbero seguire, rapidamente. A guardare i dati di bilancio della Pubblica amministrazione, si rischia un vero terremoto.
A fine 2011 i residui attivi (ovvero i crediti accertati ma non riscossi entro l'anno e iscritti, nonostante questo, tra gli attivi di bilancio) sfioravano i 16 miliardi. Non solo: in 20 capoluoghi di provincia queste poste rappresentavano buna parte del bilancio e in 15 capoluoghi i residui attivi superavano addirittura le entrate. Certo, in attesa di verificare i bilanci 2012, la situazione può essere anche cambiata. Ma visto lo stato di crisi attuale, non è il caso di essere troppo ottimisti. E il dato rappresenta un termometro chiaro dello stato di salute dei capoluoghi di provincia (e di conseguenza dei Comuni). Il significato è presto detto: i residui attivi costituiscono entrate solo ipotetiche, ma a bilancio è come se fossero poste attive e si confrontano con spese reali
ovvero il rischio buchi è enorme. E il dissesto può essere nell'aria. Esattamente come accaduto un anno fa per Alessandria, il primo capoluogo i provincia la cui insolvenza è stata accertata dalla Corte dei conti, e prima ancora per Taranto o Enna, solo per rimanere sui casi emblematici.
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