«Il 2012 sarà ricordato come l'anno del rilancio dell'euro». Da Davos, dove è in corso il World Economic Forum, Mario Draghi non ha nascosto ieri la propria soddisfazione. Del tutto legittima, se solo si considera quanto abbiano concorso le misure anti-crisi predisposte dalla Bce per evitare l'implosione dell'Europa a 17 e uno tsunami globale. Anche se, a ben guardare, il salvataggio dell'euro e il contestuale ritorno di fiducia degli investitori hanno un effetto collaterale non proprio irrilevante. Un rovescio della medaglia. O, meglio, della moneta. «Il livello troppo alto dell'euro crea qualche problema», ha detto senza mezzi termini il ministro francese delle Finanze, Pierre Moscovici. Dopo la «sparata» di qualche giorno fa del numero uno dell'economia tedesca, Wolfgang Schaeuble, contro la politica monetaria di Giappone, Stati Uniti e Regno Unito, ecco un altro segnale che i leader dell'Eurozona stanno togliendo la sordina messa finora sul valore ipertrofico della moneta unica, ieri sopra gli 1,34 dollari e ai massimi sulla sterlina da 11 mesi.
Un basso profilo che, per la verità, mal si concilia con quella che, a tutti gli effetti, sembra un remake della guerra delle monete scoppiata nel 2010. Di fronte a Tokio e Washington che imbracciano la vecchia (ma mai spuntata) arma della svalutazione competitiva, c'è poco da restare a guardare. Il rischio è che all'interno di Eurolandia, appena uscita dalla fase emergenziale, non veda neppure la luce quella ripresa prevista da Draghi nella seconda metà dell'anno perché uccisa proprio dal super-euro. Si tratta di un problema soprattutto per l'Italia, dove l'incidenza dell'euro-forte impatta per uno 0,4% sul Pil. Sempre in quel di Davos, il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha stigmatizzato il comportamento di chi cerca «scorciatoie» sul problema del rilancio della competitività legandola solo alla questione dei cambi. «Non penso - ha aggiunto il successore di Draghi a Via Nazionale - che la competitività sia determinata dai cambi nominali, ma dalla produttività». Se è vero che sotto questo profilo il Belpaese è carente, è altrettanto vero che la politica monetaria della Bce, incardinata com'è sull'imperativo tedesco di mantenere un ferreo controllo sull'inflazione, mal si presta a contrastare le strategie fortemente espansive di Federal reserve e Banca del Giappone.
Anche se venisse accolto l'invito rinnovato ieri all'Eurotower dal numero uno del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, a tagliare i tassi, probabilmente le cose non cambierebbero. Non solo Draghi ha margini di manovra limitati (il costo del denaro è allo 0,75%), ma il gioco potrebbe non valere la candela se la diminuzione comportasse un minor afflusso di capitali esteri e più inflazione.
A parte la questione cambi, che peraltro la Bce non ha mai voluto commentare, nel 2013 l'eurozona dovrà mostrare un cambio di passo. In tal senso, l'agenda del presidente della Banca centrale è chiarissima: l'asse deve essere spostato dall'aumento delle tasse e dalla riduzione delle spese per investimenti in infrastrutture («la cosa più facile da fare») al taglio delle tasse, della spesa di governo senza dimenticare la gestione della spesa per investimenti.
Poi, è l'invito di Draghi, «servono riforme strutturali, serve più competitività», in modo da incentivare le esportazioni e creare posti di lavoro. Uno studio dell'Fmi indica tra l'altro che se l'Italia riuscisse a portare a termine le riforme adottate con le liberalizzazioni, il nostro Pil potrebbe crescere del 5,7% nei prossimi cinque anni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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