Prezzo poco congruo? No. Problemi di governance? Neppure. Sciolte le due riserve che avevano portato ad arenarsi le trattative con un paio di fondi di private equity, la Fondazione Monte dei Paschi ha deciso in un lampo e senza indugi: con un investimento di 150 milioni di euro, il 4% dell’istituto di Rocca Salimbeni finisce nelle mani della famiglia Aleotti, a capo del colosso farmaceutico Menarini. Si tratta di un tassello prezioso nell’ambito della strategia con cui l’ente presieduto da Gabriello Mancini intende rimborsare, entro la fine di aprile, 600 dei circa 900 milioni di euro che costituiscono il monte dei debiti accumulati dalla banca senese in seguito alle due operazioni sul capitale effettuate nel 2008 e nel 2001.
È un ruolino di marcia dai tempi stretti, tale da prevedere la dismissione di un pacchetto fino al 15% del capitale. La Fondazione ha rivelato ieri di aver ceduto una quota complessiva pari a circa l’8,2% del capitale sociale di Mps a un prezzo medio di circa 0,376 euro, contro gli 0,35 euro della chiusura di venerdì scorso. Per centrare l’obiettivo di restituzione del debito che Palazzo Sansedoni si è dato, all’appello mancherebbe ancora la vendita di una quota superiore al 7%. Servirebbe dunque uno scatto finale, decisivo. Ma sotto il profilo economico, la meta non è poi così lontana. La cessione dell’8,2% ha infatti portato nelle casse della Fondazione una cifra attorno ai 360 milioni, derivante dalla vendita di 957 milioni di titoli. La minusvalenza c’è tutta, ed è pari a 530 milioni circa (il prezzo di carico delle azioni era di 0,93 euro). Inevitabile, visti i rovesci di Borsa subìti dall’intero comparto del credito soprattutto lo scorso anno. Ora, i 360 milioni incassati, andranno a sommarsi ai 200 milioni di ricavi legati all’alienazione delle partecipazioni minori in Mediobanca, Cdp e F2i. Totale, 560 milioni. Alla luce di questa cifra, appare del tutto evidente come Siena non abbia ormai più alcun interesse a stringere i tempi. Men che meno a cercare soci forti dopo il via libera all’ingresso della famiglia Aleotti, avvenuto peraltro in tempi record. Anche allo scopo di permettere ai patron di Menarini di iscriversi entro il 27 marzo nelle liste elettorali che saranno poi depositate non oltre il 2 aprile, in vista dell’assemblea di bilancio del 27. La riunione dei soci sancirà l’esordio di Alessandro Profumo al vertice e di Fabrizio Viola come amministratore delegato, e non è da escludere che a uno dei due figli (Lucia e Alberto Giovanni) del fondatore di Menarini, Alberto Aleotti, venga riservata una poltrona di vicepresidente in rappresentanza dei soci di minoranza. Dopo la Fondazione, con poco meno del 41%, la famiglia è del resto l’azionista di maggior peso. «I posti in cda - sottolinea Lucia Aleotti - non si chiedono. Sono dettati da regole statutarie e dai voti. È un tema che dovremo affrontare e lo faremo nei prossimi giorni». Quanto alle ragioni dell’investimento, per Aleotti è la prova che «crediamo nella ripresa dell’Italia».
A questo punto, non sembrano esserci più margini per riportare sulla scena né il fondo Clessidra di Claudio Sposito, la cui offerta era stata respinta perché giudicata troppo bassa (0,29 centesimi), né la holding Equinox di Salvatore Mancuso, vista come potenzialmente pericolosa sotto il profilo della governance. Sfumato è anche l’ingresso del fondo lussemburghese Optimum, perché il percorso che d’ora in avanti la Fondazione (oggi riunione per discutere della futura governance) vuole seguire è molto preciso: da un lato, continuerà a trattare la cessione di quote minori, anche per evitare un pressing asfissiante come quello che eserciterebbero i fondi per avere buoni ritorni sul capitale investito; dall’altra, procederà nelle operazioni di vendita fuori mercato (ai blocchi).
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