Il razzismo inesistente piace agli analfabeti

Ci siamo proprio ubriacati, e non di Negroni, purtroppo, bensì di cultura "woke" distillata a dosi tossiche

Il razzismo inesistente piace agli analfabeti
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Gentile Direttore Feltri,
in un bar di Pordenone, lunedì scorso, è quasi scoppiata una rissa tra due comitive per via di una banale ordinazione: un ragazzo ha chiesto un Negroni, e dal tavolo accanto, occupato da un gruppo di stranieri, sono partite accuse di razzismo.
Sì, ha capito bene: il cocktail sarebbe razzista. Io credo che siamo arrivati alla follia pura. Lei cosa ne pensa?

Giacomo Morace

Caro Giacomo,
penso che non soltanto siamo arrivati alla follia, ma che ci siamo proprio ubriacati, e non di Negroni, purtroppo, bensì di cultura «woke» distillata a dosi tossiche. Viviamo in una società che non si indigna più per l'ignoranza, ma per i sostantivi. Si è passati dal proibizionismo alcolico al proibizionismo linguistico: puoi essere violento, ipocrita, cialtrone, ma guai a dire una parola che ricordi vagamente un'etimologia controversa. E così accade che ordinare un Negroni scateni una crisi diplomatica, come se il conte Camillo Negroni, nobile fiorentino di fine Ottocento, fosse un trafficante di esseri umani dalla pelle colorata anziché un raffinato bevitore. È l'ennesima dimostrazione che non leggiamo più le storie, le usiamo come pretesto. Il razzismo, oggi, viene cercato nelle etichette dei liquori, non nelle intenzioni di chi parla. La parola negro, che per decenni è stata utilizzata in modo neutro su giornali, romanzi, canzoni e film, è diventata improvvisamente radioattiva e incendiaria, come se avesse provocato da sola secoli di sopraffazione. Eppure, se fossimo intellettualmente onesti, ammetteremmo che non è la parola a essere razzista, ma l'intenzione di chi la usa. Altrimenti dovremmo radere al suolo interi elenchi del telefono: via i cognomi «Negri», via le targhe delle vie, via le etichette dei vini, via anche il poeta Negri, o meglio, solamente se maschio e bianco, perché se fosse donna sarebbe giustamente tutelata dalla retorica progressista. Ma torniamo al bar di Pordenone. Un ragazzo ordina un Negroni.

Il barista versa gin, vermut e Campari. Il tavolo accanto si offende e si indigna.

E qui mi permetto di fare una domanda molto semplice: se bastano tre dita di cocktail per far scattare l'allarme razzismo, non sarà che siamo diventati tutti dei barili di permalosità priva di intelligenza? E sai qual è l'aspetto peggiore? Che queste scene non fanno ridere affatto: fanno paura. Perché certificano il declino di un mondo che ha perso il senso delle parole, distorcendole, e lo ha sostituito con la paranoia del politicamente corretto.

Ormai viviamo in uno stato di allerta semantica permanente. Parlare è pericoloso, scrivere è sospetto, persino ordinare da bere è rischioso.

Il

Negroni non è più un cocktail. È un atto di guerra culturale. Tuttavia io, caro Giacomo, continuerò a berlo. E lo farò senza sensi di colpa, alla faccia di chi ha confuso l'antirazzismo con l'analfabetismo storico.

Alla salute.

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