La Germania sta attraversando "la crisi economica più grave dalla fondazione della Repubblica Federale", nel 1949. Queste le dure parole di Peter Leibinger, presidente della Bdi, la Confindustria tedesca. Le cause principali? La crisi del settore automotive, che pesa per il 5% circa sul Pil tedesco, la minaccia geopolitica russa e le prospettive fiscali in deterioramento che pesano sui profitti delle imprese. "L'umore è estremamente negativo, persino aggressivo", ha spiegato Leibinger, sottolineando come alle aspettative iniziali seguite sull'insediamento del nuovo governo Merz siano subentrate delusione e rabbia. Tra le principali debolezze del sistema tedesco vengono citate una burocrazia pervasiva, la rigidità del mercato del lavoro e una scarsa flessibilità normativa, che rallentano la capacità di adattamento delle imprese. Come anticipato, a pesare in modo particolare è la crisi dell'automotive, sempre più sotto pressione per l'avanzata dei concorrenti cinesi. Pechino ha progressivamente eroso le quote di mercato dei costruttori tedeschi sia in Cina, tradizionale sbocco per gruppi come Volkswagen, Bmw e Mercedes, sia in Europa, grazie a veicoli elettrici più competitivi sul fronte dei prezzi e sostenuti da una filiera fortemente integrata. Un vantaggio costruito attraverso politiche industriali aggressive, trasferimenti tecnologici e joint venture con partner occidentali, che hanno consentito ai produttori cinesi di colmare rapidamente il gap tecnologico. Sul fronte energetico, l'addio al gas russo a basso costo continua a pesare sui bilanci delle imprese. I prezzi dell'energia restano strutturalmente più alti rispetto al periodo pre 2022, penalizzando in particolare i settori chimico, siderurgico e manifatturiero.
A ciò si aggiunge l'aumento della spesa militare, con Berlino impegnata a rispettare l'obiettivo Nato del 2% del Pil, riducendo ulteriormente i margini di manovra fiscale. Un mix che, secondo gli industriali, rischia di comprimere ancora a lungo la competitività del modello economico tedesco.