Aveva già capito tutto Celentano negli anni Settanta, all'epoca di Svalutation: l'inflazione è una brutta bestia, specie per chi lavora. La working class a stelle e strisce lo sta provando a proprie spese. Portafogli più leggeri mese dopo mese, salari che non reggono il passo, la sensazione della beffa nel vedere Wall Street salire anche ieri nonostante l'ennesimo salto di staccionata dei prezzi al consumo, balzati in dicembre al 7%, un altro anello - il diciannovesimo consecutivo - dell'impressionante catena di rialzi. Piace alla finanza yankee aver centrato le previsioni, piace l'esibizione impeccabile di cerchiobottismo con cui l'altra sera il capo della Federal Reserve, Jerome Powell, ha squadernato il nuovo corso da falchetto della banca centrale, con la fine entro marzo del piano di acquisti mensili da 120 miliardi di dollari, tre giri di vite ai tassi e un alleggerimento del budget, ora pari a 8mila miliardi. Adelante Jay, ma con juicio: non c'è urgenza nel riportare alla neutralità la politica monetaria, c'è sempre tempo per far ripartire la stamperia in caso di guai.
Quarant'anni fa l'inflazione era agli stessi livelli di adesso, ma bisogna coglierne le differenze. La prima, la più marcata, è che allora i tassi erano all'11%, mentre ora sono azzerati. La battaglia intrapresa contro il carovita da Paul Volcker, all'epoca capo di Eccles Building, nell'82 era già cominciata e si sarebbe conclusa cinque anni più tardi, con i prezzi abbattuti al 3,7% dal picco superiore al 13% del 1980. Volcker, rispetto a Powell, aveva un vantaggio: nel suo vocabolario economico l'acronimo Zirp (Zero Interest-Rate Policy) non esisteva. La Fed di oggi, vittima e carnefice della sua stessa strategia di alleggerimento, questi spazi di manovra non li ha. Per chi dà ancora per buoni i dettami della regola di Taylor, i tassi dovrebbero essere già al 4,15%. Da questo punto di vista, Powell è in ritardo come un treno locale di pendolari e potrebbe pagare caro l'aver mantenuto finora tirato il freno se a ridosso di novembre, mese delle elezioni di mid-term e banco di prova per la riconferma di Joe Biden, la ripresa avrà perso ulteriore slancio.
Anche se l'istituto di Washington riuscisse a incasellare otto strette, spalmate fra questo e il prossimo anno, il costo del denaro sarà di poco superiore al 2%. Difficile, così, far piegare la testa all'inflazione. Ancor più complicato visto che nei prossimi mesi sarà quasi impossibile governare con gli strumenti della politica monetaria le interruzioni nella catena di approvvigionamenti e le richieste di aumenti retributivi.
Le prime, salvo una sparizione di Omicron, non sembrano destinate a risolversi; le seconde ancor meno, perché i contagi acuiranno il problema della penuria di manodopera, con le aziende che potrebbero essere costrette ad allargare i cordoni della borsa per reperire personale. E, comunque, le richieste di buste paga più pesanti saranno alimentate dall'inflazione, che su base annua ha provocato un calo dei salari pari al 2,4%.
Quattrini per venire incontro ai lavoratori non mancherbbero: FactSet stima che le società dello Standard&Poor's 500 hanno chiuso l'ultimo trimestre con utili in crescita del 22% rispetto all'ultimo quarter del 2020. Main Street tira insomma la cinghia, mentre Wall Street continua a festeggiare. C'è la Svalutation, ma non per tutti.
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