Immaginate Mario Draghi come un equilibrista. La corda su cui cammina è la più robusta crescita dell'eurozona, l'euro troppo forte è la folata di vento che rischia di farlo cadere. Fuor di metafora, il presidente della Bce è vittima di un ossimoro economico: è difficile pretendere, a fronte di un Pil rivisto al +2,2% per il 2017, di aver anche un cambio loffio. Da giovedì pomeriggio, quando si sono spenti i riflettori sulla riunione dell'Eurotower, l'encefalogramma della moneta unica non ha infatti dato uno solo bip di indebolimento arrivando ieri a sfiorare quota 1,21 dollari, ai massimi da gennaio 2015. Nonostante i dribbling lessicali dell'ex governatore di Bankitalia sul tapering, i mercati scommettono dunque che l'annuncio sul ruolino di marcia relativo al ritiro delle misure straordinarie arriverà presto. Forse già nel vertice ottobrino della banca centrale, come implicitamente ammesso dallo stesso Draghi seppur con tutte le cautele del caso.
D'altronde, l'insoddisfacente andamento dell'inflazione, condito con i caveat derivanti dall'eccessivo apprezzamento valutario, non può continuare a essere il coniglio tirato fuori dal cilindro per ritardare la ricalibrazione del piano di acquisto dei titoli. L'insolita accondiscendenza con cui il capo della Bundesbank, Jens Weidmann, ha accettato le decisioni prese l'altroieri dal board della Bce pare proprio indicare che qualcosa stia già bollendo in pentola. Draghi ha ammesso che una discussione molto embrionale sull'exit strategy dal Qe è già stata intavolata durante l'ultima riunione, ma alcune fonti citate da Reuters sono entrate ieri molto di più nel dettaglio rivelando l'esistenza di quattro possibili scenari sulla rimodulazione del bazooka monetario. Il più interessante è quello che riguarda la possibilità di far calare gli acquisti mensili dai 60 miliardi attuali a 40 o 20 miliardi, probabilmente a partire dal prossimo mese di gennaio. Questo taglio resterebbe in vigore per 6 o 9 mesi, periodo al termine del quale il Qe dovrebbe essere arrivato al capolinea. Poi, eventualmente, si ragionerà sul rialzo dei tassi. Inoltre, i titoli in scadenza, oggetto di reinvestimento, salirebbero lentamente a 15 miliardi al mese nel corso del 2018. Il ricorso pendente della Corte costituzionale tedesca contro le misure non convenzionali, impedirebbe invece di modificare la regola in base alla quale la Bce non può comprare più di un terzo delle emissioni sovrane di un Paese.
Insomma, se queste indiscrezioni saranno confermate, lo stato dei lavori è molto più avanzato rispetto alla versione ufficiale. Anche se è difficile immaginare un taglio brutale di 40 miliardi con l'inizio del nuovo anno: più verosimile che, come accaduto nell'aprile scorso, la dose di aiuti sia scalata» di una ventina di miliardi per evitare eccessive ripercussioni. È probabile che la Bce, prima dell'avvio del processo di normalizzazione della politica monetaria, confidi in un aggiustamento dei rapporti tra euro e dollaro, necessario per non far saltare almeno le stime d'inflazione basate su un cambio a 1,18.
Una fiducia che, al momento, appare però eccessiva.
Tra qualche mese i fattori che stanno contribuendo a indebolire il biglietto verde, come la crisi nordcoreana, l'inazione di Trump sul fronte della politica economica e il flagello dei mega tornado sulla crescita del Pil, potrebbero anche essere rientrati. Ma è comunque molto improbabile che Janet Yellen, in uscita dalla Fed il prossimo febbraio, dia una mano a Draghi e alzi i tassi solo per fare un dispetto a The Donald.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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