Anche i grandi soffrono. Con lo spread stabile da mesi sopra quota 400 anche le poche grandi imprese italiane soffrono. Il paradosso è che in questo caso a goderne maggiormente sono gli stranieri. Colpa nostra certo, ma come vedremo tra poco la faccenda è davvero intricata. E pericolosa. Come ha documentato bene Laura Serafini sulSole24ore le grandi e poche multinazionali italiane che chiedono prestiti, debbono pagare un differenziale rispetto ai loro competitor stranieri fino a due punti percentuali. Si tratta di un mucchio di quattrini. Pensate all’Enel e ai suoi 43 miliardi di debito. Rispetto alle grandi multinazionali straniere dell’energia ha un costo ben superiore. Ma anche rispetto al costo che sopportava essa stessa solo pochi anni fa (e con un debito che allora era addirittura superiore) il paragone è drammatico: rispetto alla situazione precrisi del 2007 è infatti costretta a pagare interessi aggiuntivi per il rischio Italia superiore all’astronomica cifra di 500 milioni. Insomma rispetto ai cugini francesi di Edf (meno indebitati certo e con rating favoloso) parte da meno cinquecento. Il caso più eclatante è quello di Unicredit. Si tratta del nostro gruppo bancario più internazionalizzato. Semplificando si può dire che Ghizzoni e i suoi prestano a famiglie e imprese 500 miliardi di euro. Circa 200 in Italia, altri 200 nell’area germanocentrica e i 100 che mancano nel resto del mondo.
Prendendo ad esempio la recente emissione obbligazionaria collocata in Italia lo scorso agosto, al momento del lancio aveva un rendimento del 4%. Le operazioni comparabili dicovered bond fatte da Ghizzoni sul mercato tedesco, con la stessa scadenza, sono state emesse con rendimenti pari a circa l’1 per cento, facendo emergere un differenziale di rendimento (spread) pari a circa 3%.
È questo (300 basis point ) il differenziale minimo di costo del danaro che si scarica sulle imprese italiane solo per effetto dello spread.
Inoltre, per quanto riguarda Unicredit, l’aspetto interessante è che nello stesso momento il differenziale tra Btp e Bund sulla stessa scadenza era superiore a 4%. Ciò vuol dire che il costo della raccolta per la banca in Italia è molto più elevato di quello fatto dalla stessa banca in Germania, anche se inferiore allo spread esistente sui titoli di Stato. Ghizzoni non può raccogliere soldi a buon prezzo in Germania e poi utilizzarli in Italia. Cosa che ovviamente sarebbe molto vantaggiosa. Superata l’obiezione delle autorità finanziarie di Berlino che non amavano questo genere di pratiche, resta un insormontabile scoglio fiscale. Semplificando: se Unicredit raccoglie all’1 per cento in Germania e al 4 in Italia e si azzarda a trasferire la liquidità da dove costa meno a dove costa più, deve pagare su quel differenziale un monte di tasse.
Gli effetti macroeconomici sono di tutta evidenza. Le banche italiane si approvvigionano della loro merce (danaro) a tassi superiori ai competitor tedeschi e dunque debbono prestarlo a tassi di molto superiori che in Germania. E chi, come Enel, Eni, Atlantia, si rivolge direttamente al mercato, incappa nella stessa tagliola.
Il paradosso di cui parlavamo all’inizio della Zuppa è che tutte queste enormi emissioni obbligazionarie fatte dai nostri big sono sottoscritte da stranieri, allettati dai buoni rendimenti che assicurano. Nel frattempo i conti economici e le quotazioni borsistiche nelle nostre grandi aziende languono proprio per il costo degli interessi. E le stesse diventano oggetto del desiderio (per i loro prezzi scontati) dei concorrenti internazionali. Oltre al danno la beffa.
Emettono prestiti che grazie agli ottimi rendimenti si comprano gli stranieri, le quotazioni scendono anche per l’entità del costo del loro debito pagato agli stranieri, e questi ultimi si trovano nell’invidiabile condizione di potersele scalare con quattro soldi.
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