Economia

Minaccia materie prime: l'inflazione mascherata rallenta la ripresa del Pil

Usa e Cina alla base dell'impennata dei beni d'importazione. Europa e Italia anelli deboli

Minaccia materie prime: l'inflazione mascherata rallenta la ripresa del Pil

I furbetti dello scontrino sono tornati. Costco, gigante Usa nel settore degli ipermercati all'ingrosso, è uno di questi. Da qualche giorno, sui suoi scaffali i rotoloni di carta asciugamani vengono proposti allo stesso prezzo, ma con una differenza sostanziale: ogni articolo ha subìto un taglio di 20 fogli, da 160 a 140, di cui quasi nessuno si accorge. Peccato, visto che la riduzione equivale a un rincaro superiore al 14%. Questo è un tipico esempio di quello che gli esperti definiscono shrinkflation, un'inflazione occultata. Una pratica elementare, vecchia come il cucco e (ab)usata in tutto il mondo, prontamente rispolverata a causa delle quotazioni stellari raggiunte dalle materie prime. L'effetto è evidente: le tensioni sui prezzi si stanno riversando sull'intera filiera, fino a raggiungere il consumatore finale.

L'inflazione mascherata, declinata in base ai prodotti venduti (c'è chi riduce le barre di cioccolato, chi la quantità di gelato, di patatine o di succo d'arancia) è l'ultima frontiera prima di varcare il Rubicone: lo step successivo è un aumento dei prezzi alla luce del sole. Si tratta di un punto non ritorno: quei rincari rimarranno indelebilmente appiccicati ai listini. Ciò rende per forza di cose meno credibile l'alibi della transitorietà dell'inflazione sbandierato di continuo dalle banche centrali. Prima o poi, soprattutto quando il carrello della spesa rifletterà non più solo tensioni di carattere stagionale ma strutturali, gli uffici di statistica inizieranno a testimoniare che i tempi della disinflazione, e del babau della deflazione, sono ormai ai titoli di coda. Anche perché all'appello manca ancora il petrolio, un probabile convitato di pietra alla tavola della ripresa post-Covid. Oltre a prevedere un'ulteriore salita delle quotazioni delle materie prime del 13,5% entro ottobre, Goldman Sachs stima per i corsi del Brent un salto in alto del 15% nei prossimi due trimestri per effetto dell'attesa domanda boom. Insomma, altra benzina sul fuoco.

Certo, a giudicare dall'andamento delle ultime trimestrali della Corporation Usa così gonfie di utili, si poteva evitare di dar ulteriore fiato alla corsa dei rincari. Si è invece preferito, a fronte di un oggettivo incremento dei costi, agire subito sui prezzi per salvaguardare i margini di profitto. Salvo poi, dato che le casse straboccano di liquidità, mettere in cantiere buyback miliardari. Come ha fatto Apple, che ha appena approvato un piano di riacquisto di propri titoli per 90 miliardi di dollari. Un altro vizietto antico, destinato a foraggiare ricchi bonus e la distribuzione a piene mani di dividendi.

Chi invece rischia di restare schiacciato sotto il peso di ciò che si va profilando è il consumatore. In particolare quelli dei Paesi più vulnerabili. Questo, infatti, è un embrione di ripresa, perlopiù sghemba. Le differenze di passo economico si stanno facendo via via più marcate, e proprio l'inflazione può diventare il cuneo capace di provocare crepe nella recovery. Ciò vale soprattutto in Europa, dove la media dell'1,3% dei prezzi al consumo nasconde la forbice divaricata fra il 2% della Germania, il -2% della Grecia e l'1% dell'Italia.

L'andamento dell'inflazione è infatti il terreno su cui, all'interno della Bce guidata da Christine Lagarde, si stanno scontrando falchi e colombe. E la reticenza nel comunicare i promessi incrementi degli acquisti di titoli nell'ambito del Pepp (il piano contro l'emergenza pandemica da 1.850 miliardi) ne è una prova.

A dispetto delle rassicurazioni sul mantenimento dello status quo monetario da parte degli istituti di emissione, Bank of America sostiene che il ritiro delle misure di stimolo sta già prendendo forma: il QE delle quattro grandi banche centrali scenderà degli 8.500 miliardi di dollari del 2020 a 3.400 miliardi quest'anno, per poi quasi azzerarsi (400 miliardi) nel '22.

Se l'Eurotower darà entro fine anno il primo colpo di piccone al Pepp, per Roma sarà un problema: più costi per rifinanziare il debito, proprio mentre il carovita morde le tasche di molti italiani ancora senza lavoro o in cassa integrazione.

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