Declinato alla maniera di Elon Musk, il vecchio proverbio secondo cui chi disprezza compra si traduce nel mettere le mani sul 9,2% di Twitter e diventarne il primo azionista. Un gesto da paladino dei princìpi democratici costato quasi tre miliardi di dollari. Dunque, argent de poche per uno che dispone di un patrimonio personale pari a 267 miliardi ed è abituato a far di testa propria, impegnato com'è a sostenere e poi abiurare le sue stesse opinioni. Sempre a colpi di cinguettii.
Per anni, Twitter è stato per il guru di Tesla megafono, clava mediatica e teatro di topiche clamorose. La peggiore risale all'estate del 2018, quando il manager aveva cinguettato di avere i quattrini per il delisting dal Nasdaq della sua creatura, a 420 dollari per azione, salvo non riuscire a fornire lo straccio di una prova. Più di recente, nel duello mortale fra piccoli e investitori ed hedge fund per le sorti di Gamestop, aveva dapprima appoggiato i micro-trader spalleggiati da Robinhood, salvo poi scaricarli. Non senza portare a casa una bella pila di bigliettoni. Infaticabile leone da tastiera dalla vena torrenziale (a livello globale, il suo account è l'11esimo più seguito), il fondatore di PayPal ha quindi fatto assaggiare ai Bitcoin l'altare («Sono il futuro») e la polvere («Inquinano, niente crypto per comprare le mie macchine»), trascinandoli sull'ottovolante impazzito delle quotazioni. Lo scorso novembre, la Sec (la Consob Usa) lo aveva preso per un orecchio e messo dietro la lavagna, costringendolo a dimettersi dalla carica di presidente del gruppo automobilistico. Allo scopo di pagare le tasse sulle plusvalenze, Musk aveva chiesto agli 80 milioni di follower un parere sull'eventuale vendita del 10% del suo pacchetto Tesla, facendo crollare il titolo in Borsa.
Il vizietto da tribuno del popolo però gli è rimasto. Venerdì si è infatti rivolto ai seguaci con un altro dei suoi proclami: «Dato che Twitter funge de facto da piazza pubblica, il mancato rispetto dei principi della libertà di parola mina fondamentalmente la democrazia. Cosa dovrebbe essere fatto?». Due le opzioni prospettate: creare dal nulla una nuova piattaforma, come fece Donald Trump dopo essere stato bannato nel gennaio 2012 in seguito all'assalto di Capitol Hill; oppure, far capire al dispotico social chi comanda, comprandolo. Meglio la seconda. Fatto.
Anche se la partecipazione è indicata come passiva, nessuno crede che Musk farà da spettatore, per di più pagante, ora che può guardare dall'alto in basso il fondo Vanguard (all'8,7%) ed esibire una partecipazione quattro volte superiore a quella del fondatore Jack Dorsey. Qualche analista ipotizza che Musk non si fermerà e che stia puntando al bersaglio grosso, cioè a una vera e propria acquisizione della piattaforma. Non a caso, più che un cinguettio, Twitter ha emesso un ruggito ieri a Wall Street, dove il titolo è balzato del 26%. I propositi bellicosi erano del resto già chiari lo scorso novembre.
In un tweet, il nuovo ceo del social, Parag Agrawal, veniva raffigurato come il dittatore sovietico Joseph Stalin e Dorsey come il capo della polizia segreta sovietica Nikolai Yezhov che viene spinto in acqua. Adesso, pare che sia Musk a voler togliere il salvagente a chi è rimasto sulla barca.
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