Come nel romanzo di Calvino, in Italia non valgono le regole, ma il loro opposto

C alvino ci racconta che Valdrada è stata costruita in un tempo antico, sulle rive di un lago. Le abitazioni sono tutte l'una sopra l'altra per modo che il viaggiatore che passa di lì vede due città: una verticale, l'altra, opposta, riflessa nel lago. Ad ogni gesto, ad ogni viso, ad ogni movimento (anche a quelli più intimi) nella prima, corrispondono, nella seconda, i contrari. Ma ciò che colpisce di più - insinua l'autore de «Le città invisibili»- le due Valdrada non sono uguali: quanto vale per quella di sopra non sembra valere - punto per punto - per quella di sotto. Tra le due, aggiunge, non c'è amore.

Qualche giorno fa, per caso, mi trovavo proprio da quelle parti, vicino a Valdrada intendo, e nel pensare alle cose capovolte, non ho potuto resistere dal pensare al Fisco: dove siamo finiti! I principi costituzionali e tra questi e avanti a tutti, il fondamentale principio di capacità contributiva (art. 53 Costituzione), non solo sono stati svuotati, ma le leggi dei politici hanno saputo costruirne gli opposti. Strisciando subdolamente, direi, nell'ignoranza. La conseguenza, oltre il decesso di un sistema ingegnoso e pieno d'umanità (quello scolpito nella Costituzione), è l'avere trasformato l'Agenzia delle entrate - che di questo non ha colpa - in un rapace aggressivo, simile a quei mostri straordinari delle pagine di Borges (Il libro degli esseri immaginari), che sorvola sulla ricchezza ovunque e qualunque sia, sciolto dalla preoccupazione di assoggettare ad imposta i soli fatti realmente imponibili. Sciolto dalla preoccupazione di essere punito per le violazioni dei criteri di riparto (la metto così, più semplicemente: la tendenza del «mostro fantastico» è «prelevare tasse a chi gli capita sotto», senza considerare l'attitudine del cittadino ad assolvere il proprio dovere contributivo secondo la qualità dell'economia manifestata). La civiltà di un sistema fiscale - come il nostro, un tempo! - invero, dipende dal principio di capacità contributiva: la sua morte è morte della civiltà e vita della diseguaglianza: qui il reddito è tassato anche se non ce l'hai (imposizione presuntiva), la casa è soverchiata da tributi anche se non è tua (ma della banca), moltitudini di costi essenziali alla vita libera (o alla professione) diventano esibizione di lusso, inversioni di oneri probatori (che obbligano il contribuente a ricercare prove contrarie indicibili) sono impiegati con frequenza medievale. In questa vita - dove il politico nascosto dietro l'emergenza che lui stesso ha concorso a cagionare occulta nella legge la peggiore ingiustizia fiscale solo per tentare di far tornare i conti - tutto sembra concesso, alle spalle di un conato di disgusto.

Qualche giorno fa la Corte dei conti ha affermato che il prelievo tributario, nel complesso, è intollerabile: che dire - mi sono chiesto - del pagamento degli acconti? Ossia, del pagare le imposte un anno prima, quando, ancora, non si ha prodotto il reddito che esprime il tributo? Eppure non accade nulla. L'indignazione si spegne nel giro di qualche giorno e le schiene tornano a piegarsi sotto l'onere di insulsi adempimenti burocratici concepiti - ormai è evidente - per non farci pensare.

Sapete per quale motivo restiamo sulle ginocchia? Perché - esausti da anni di finzione - ci siamo abituati a vivere a testa in giù, nel mondo capovolto, nel luogo «del riflesso opposto», dove non vale la regola ma il suo contrario. Dove l'onestà non è premiata ma diventa strumento per essere messi a fuoco e colpiti meglio da una nuova imposta.

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