Pechino fuma (di rabbia) contro le e-cig

La Cina spinge per le più dannose sigarette di Stato. Il paradosso dell'Oms che la premia

Pechino fuma (di rabbia) contro le e-cig
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Il Dragone soffia fumo dalle narici. Fumo di sigaretta, s'intende: perché in Cina quello del tabacco è un settore di grande interesse. Anzi, di grandi interessi. Per questo il governo di Pechino starebbe esercitando la propria l'influenza politica ed economica sugli organismi che lo regolano, in primis l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Con oltre 350 milioni di fumatori stimati e 2,4 trilioni di sigarette vendute ogni anno, il Paese asiatico è il più grande produttore al mondo di sigarette tradizionali, con una richiesta di consumo altissima: superiore a quella delle 67 nazioni successive in graduatoria, sommate tra loro.

Ecco perché Pechino insiste nell'incentivare l'utilizzo delle sigarette gestite dallo Stato, sebbene numerosi studi scientifici riconoscano ai moderni prodotti senza combustione un ruolo determinante nella riduzione dei rischi per la salute. In Cina, però, l'industria dello svapo è in mano perlopiù dai privati e così i funzionari governativi fanno «ostruzionismo» alle e-cig con norme restrittive. Non accade altrettanto col fumo convenzionale: la China's National Tobacco Corporation è la più grande azienda del settore al mondo e il Monopolio Cinese dei Tabacchi controlla il 46% del mercato globale delle sigarette. La sua influenza è tentacolare. I burocrati governativi stabiliscono le quote per i coltivatori di tabacco in foglia, rilasciano licenze a centinaia di migliaia di singoli rivenditori, controllano quali camionisti sono autorizzati a trasportare prodotti del tabacco. Al contempo, l'agenzia ha introdotto una serie di iniziative per scoraggiare il passaggio alle sigarette elettroniche, come il blocco totale alle importazioni dall'estero, il divieto per gli aromi diversi dal tabacco, lo stop alle e-cig ricaricabili.

In compenso, Pechino adotta politiche commerciali molto aggressive sui mercati esteri, dove invece vengono esportati prodotti contenenti nicotina banditi sia dal governo cinese sia dagli altri governi. A tal fine, il Monopolio cinese dei tabacchi si è avvantaggiato della «Nuova via della seta», che secondo alcuni report internazionali - sarebbe stata utilizzata per mettere nelle mani dei contrabbandieri sigarette e prodotti senza combustione, in modo che potessero essere venduti sul mercato nero estero, dove i prodotti cinesi illegali sono ampiamente disponibili. A oggi, tuttavia, l'Oms non ha mai criticato la Cina per il suo ruolo nella promozione del consumo di questi prodotti all'estero, né per le dimensioni del fenomeno del fumo in patria. Al contrario, il Paese è considerato dall'agenzia dell'Onu un «modello» per le politiche di contrasto al fumo, sebbene i fatti dicano altro. Un paradosso.

Un'inchiesta giornalistica internazionale ha analizzato la campagna con cui China Tobacco avrebbe «bloccato, sviato e influenzato aspetti chiave dell'attuazione del trattato dell'Oms per il controllo del tabacco, operando dal profondo dell'establishment politico cinese». Il Dragone, dunque, influirebbe e non poco sugli orientamenti dell'agenzia Onu, della quale la Cina è il secondo contributore più grande dopo gli Stati Uniti. Le ombre cinesi si allungano così anche sulla Conferenza delle Parti (Cop10) che si terrà a Panama nel 2024 per delineare le future direttive internazionali sul controllo del tabacco.

Per l'occasione, l'orientamento dell'Oms è quello di equiparare i moderni prodotti senza combustione alle tradizionali sigarette, scelta che renderebbe vani gli sforzi di lotta al fumo e cozzerebbe con i più recenti studi scientifici sul tema. A giovarne sarebbero però, e ancora una volta, gli interessi di Pechino.

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