La Pearl Harbor del petrolio non è finita. Sotto il bombardamento delle vendite, i prezzi hanno continuato a declinare anche ieri nonostante l'intervento di Donald Trump a difesa dei produttori statunitensi.
Nulla di paragonabile alla tragica picchiata di lunedì scorso, quando il contratto di maggio del Wti ha chiuso a -37 dollari, offrendo la plastica rappresentazione della fuga disperata di chi, avendo tenuto in mano fino all'ultimo il future ormai in scadenza, ha preferito pagare un dazio salato pur di sbarazzarsene. Ma l'andamento del Wti di giugno, sceso del 55% a poco più di 9 dollari il barile, fa intuire una possibile replica del black monday mano a mano che si avvicinerà il closing del contratto, previsto il 19 maggio. Ed è proprio ciò che temono anche i mercati azionari, tutti in forte calo (-3,6% Milano, -3,2% lo Stoxx600, -2,6% Wall Street a un'ora dalla chiusura).
I nodi che hanno determinato l'ecatombe di inizio settimana restano infatti tutti sul tavolo, a cominciare dal surplus di offerta provocato dalla pandemia da coronavirus. Le prime proiezioni indicano per aprile una contrazione della domanda pari a 29 milioni di barili al giorno, ben superiore ai 10 milioni di barili che l'Opec+ dovrebbe cominciare a sottrarre dal mercato a partire da maggio.
Con la sete di greggio venuta meno soprattutto in Paesi energivori come la Cina e l'India (la richiesta di carburanti è già precipitata del 50%) e con la prospettiva che la domanda globale non ritorni mai più ai livelli precedenti il Covid-19 (100 milioni di barili al giorno), il problema legato alla stoccaggio si va facendo drammatico col passare delle settimane. Perfino la multinazionale olandese Vopak sta per appendere il cartello «tutto esaurito» nei suoi centri di Singapore, Rotterdam e Fujairah. Anche un mega-hub come quello di Cushing, in Oklahoma, centro di accoglienza dei barili a stelle e strisce, è ai limiti della saturazione, così come le cisterne e le petroliere sparse in ogni angolo del pianeta.
È il motivo che ieri ha determinato anche il calo violento del Brent (-30% a 17,81 dollari), fino a qualche giorno fa considerato più al riparo rispetto al Wti dal problema legato alla mancanza di luoghi per la conservazione.
Trump è consapevole dei disastri che può provocare la carenza di siti di stoccaggio. L'inquilino della Casa Bianca ha così rilanciato ieri la proposta, già bocciata dai democratici per il costo (circa tre miliardi), di aggiungere 75 milioni di barili alle riserve strategiche Usa. Creato a partire dallo choc petrolifero degli anni '70, il sito può stivare 713 milioni di barili e ne «ospita» al momento 635 milioni.
Le nuove entrate finirebbero quindi per esaurire i posti disponibili. Ma il problema vero è un altro: quelle grotte di sale dislocate in tutta la costa del Golfo del Messico sono troppo fragili per sopportare movimentazioni frequenti. Il tycoon ha però calato un altro asso sul tavolo, con l'annuncio di un piano che metterà soldi direttamente nelle mani dell'industria petrolifera e del gas, «in modo che queste aziende e posti di lavoro così importanti siano assicurati a lungo nel futuro!».
Ciò che The Donald non può però governare è il sell-off sul petrolio provocato da Etf monstre come l'Uso (United States Oil Fund), le cui quotazioni sono state ieri bloccate temporaneamente dopo la decisione - presa sotto imposizione della Sec - di sospendere l'emissione di quattro miliardi di creation basket, il «canestro» dentro cui vengono collocati i future petroliferi.
Dopo aver venduto a piene mani i contratti sul Wti di maggio, l'Uso ha ora in portafoglio il 30% dei future di giugno. Come avere una bomba nella pancia. Infatti, c'è già chi ipotizza una prossima liquidazione del fondo. Sempre che Trump non convinca la Fed a comprare greggio sotto forma di Etf.
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