Forte del consenso all'interno dell'Opec, l'Arabia Saudita propone ai Paesi produttori di petrolio di tagliare nel 2019 la produzione di un milione di barili al giorno, ma incassa il «niet» della Russia. È la prima smagliatura all'interno di un'allenza che pareva inossidabile, e arriva in un momento complicato. Rispetto ai massimi più recenti, le quotazioni del greggio hanno perso mediamente oltre il 20% dopo che si sono rivelati infondati i timori di uno choc da offerta indotto dalla crisi venezuelana e dalle sanzioni Usa all'Iran. Per due motivi: i possibili buchi di output sono stati subito colmati grazie ai record produttivi fatti segnare in ottobre proprio da Riad (10,7 milioni di barili al giorno), Mosca (11,4) e dai player statunitensi (11,4); inoltre, Donald Trump ha esentato per sei mesi otto Paesi, tra cui l'Italia, dalla tagliola dell'embargo. Una mossa che ha reso superate le stime di una carenza di un milione di barili al giorno di olio iraniano.
Va così maturando nel Cartello la convinzione che il mercato sia attualmente ben rifornito, ma che l'anno prossimo il mantenimento di simili livelli genererebbe un surplus di offerta. Il rallentamento economico a livello globale, destinato a mutarsi in una recessione nel 2019 secondo alcuni economisti, rischia in effetti di avere serie ripercussioni sulla richiesta petrolifera. Peraltro, i primi segnali di cedimento della domanda già si notano nei Paesi emergenti che stanno accusando il colpo del rafforzamento del dollaro e delle ripetute strette ai tassi date dalla Federal Reserve, mentre le ricadute della guerra dei dazi tra Usa e Cina non sono ancora calcolabili con precisione in termini di minor sete energetica del Dragone.
Alla richiesta di un taglio di un milione di barili (alla quale l'Arabia aderirebbe accollandosene la metà) il ministro russo dell'Energia, Alexander Novak, ha però risposto invitando l'Opec a non fare cambiamenti «affrettati» che potrebbero incrementare la volatilità dei mercati. È evidente che il tema sarà oggetto di discussione nel vertice del prossimo 6 dicembre, ma Mosca ha subito fatto capire di non essere interessata, nonostante i recenti picchi, a ricalibrare la produzione. La Russia non ha del resto bisogno di prezzi più alti. Necessità che hanno invece i sauditi, alle prese con sanguinosi disavanzi di bilancio che stanno costringendo il Paese ad emettere bond ciclopici, in attesa della quotazione (più volte rimandata) del 5% di Aramco da cui contano di incassare 100 miliardi di dollari. Ma perseguendo una politica di moderazione produttiva, il principe ereditario Mohammed bin Salman si assume anche il rischio di una reazione violenta da parte di Trump. Il tycoon, per il momento, ha scelto la linea morbida: «Speriamo che l'Arabia Saudita e l'Opec non taglieranno la produzione di petrolio. I prezzi del petrolio dovrebbero essere molto più bassi in base all'offerta!», ha twittato ieri. Un cinguettio comunque sufficiente a gelare i prezzi del petrolio a New York, scesi sotto i 60 dollari dopo un picco gioraliero vicino a quota 61.
Un'eventuale fiammata dei prezzi dell'oro nero causata dai tagli non migliorerebbe tra l'altro i rapporti tra Riad e Washington, non proprio idilliaci dopo la morte del giornalista Jamal Kashoggi. Inoltre, l'Arabia potrebbe commettere di nuovo l'errore di lasciare quote di mercato ai produttori di shale Usa se le quotazioni dovessero collocarsi in un range fra gli 80 e i 90 dollari.
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