Doveva essere l'opzione nucleare capace di indurre alla resa i nemici, è invece solo una guerra combattuta a colpi di cerbottana. Così, l'America rischia di pagare salata la decisione presa ieri da Joe Biden di liberare dalle riserve strategiche 50 milioni di barili di petrolio, nel tentativo di calmierare le quotazioni internazionali del greggio e, di riflesso, i prezzi di benzina e gas. La mossa - coordinata con Gran Bretagna, Giappone, India, Corea del Sud e forse Cina - ha però prodotto l'effetto contrario: il Wti è tornato ben sopra i 78 dollari (+2,28%), il Brent ha scavalcato il muro degli 82 dollari (+3%).
Un buco nell'acqua, in parte determinato dal fatto che i mercati avevano nei giorni scorsi già metabolizzato la notizia, ma soprattutto legato all'insufficiente sforzo profuso da Washington. La quota di oro nero attinta dallo stock per le emergenze, creato qualche anno dopo lo choc petrolifero del '73 e pari a 617 milioni di barili, equivale negli Usa a circa due giorni e mezzo di consumi. A livello globale, i consumi toccano i 100 milioni ogni 24 ore. La mossa di concerto è insomma come la morfina iniettata per contrastare un'infezione grave: non serve a nulla. Già prima dell'annuncio, Barclays si era peraltro mostrata perplessa: «Riteniamo che le riserve strategiche non siano una fonte di approvvigionamento sostenibile e l'effetto di tale intervento sul mercato sarebbe solo temporaneo».
La Casa Bianca, che sta anche vagliando se stoppare le esportazioni di petrolio Usa, si è detta pronta «a intraprendere ulteriori azioni, se necessario». Pare che sarà il caso. Anche perché il costo dei carburanti e del metano sta diventando una vera spina nel fianco di Biden. Un gallone di benzina costa in media 3,41 dollari, ben 1,29 dollari in più rispetto a un anno fa, ma in California il rifornimento è ancora più doloroso per gli automobilisti, con punte di 6,39 dollari toccati nella stazione Najah's Desert Oasis. Prezzi che soffiano sul fuoco dell'inflazione (6,2% a ottobre) e rischiano di mettere sabbia negli ingranaggi della ripresa, mettendo il riconfermato presidente della Fed, Jerome Powell, di fronte a un conundrum: soffocare il carovita alzando i tassi, o preservare il Pil?
Dopo il tentativo, andato a vuoto, di ottenere più offerta da parte dell'Opec+, il successore di Trump ha spostato il tiro sull'industria nazionale energetica con la richiesta, rivolta alle autorità di regolamentazione federali, di aprire un'indagine per determinare se le aziende si siano macchiate di «condotte illegali». Del resto, Deloitte è convinta che le compagnie petrolifere Usa stiano facendo soldi a palate come non si vedeva dalla rivoluzione dell'olio di scisto. Biden deve quindi fronteggiare un nemico interno, per tradizione legato a filo doppio ai repubblicani e con grandi poteri di lobby, e uno esterno che ha le fattezze del Cartello allargato dei principali produttori di greggio.
L'azione concertata con altri Paesi rischia di creare una rappresaglia già la prossima settimana, quando la riunione dell'Opec+ potrebbe decidere di ridurre - o addirittura far saltare - il promesso aumento produttivo di 400mila barili al giorno.
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