«Gli Usa hanno creato 250mila posti a ottobre, e questo nonostante gli uragani. Disoccupazione al 3,7%. Salari SU! Questi sono numeri incredibili. Avanti così, votate repubblicano!». A soli quattro giorni dall'appuntamento con il voto di mid-term, Donald Trump suona la grancassa dell'«America is strong». Visto l'invito esplicito a scegliere il Grand Old Party, e a mantenere così gli attuali equilibri al Congresso e spianare la strada per un secondo mandato, è uno spot elettorale bello e buono. Che tuttavia trascura un dettaglio fondamentale: proprio le cifre sulla robustezza del mercato del lavoro, e soprattutto l'incremento delle paghe orarie del 3,1% (il più alto da aprile 2009), rafforzeranno ancor più nella Federal Reserve la convinzione che i tassi debbano ancora essere alzati. Proprio ciò che il presidente Usa ha detto di non gradire, al punto da accusare il numero uno della Fed, Jerome Powell, di essere impazzito.
In ogni caso, lo spottone à la Donald pro domo sua è una novità visti i messaggi obliqui in chiave elettoralistica, tipo la promessa di abolizione dello jus soli, mandati negli ultimi giorni dal tycoon. Con la stessa chiave di lettura si può leggere l'improvvisa, e inopinata, schiarita nei rapporti commerciali tra Stati Uniti e Cina. La Casa Bianca ha fatto sapere di voler stringere con Pechino un'intesa al summit del G-20, previsto tra un mese in Argentina, tale da spazzare dal tavolo dazi, ritorsioni e tutto il lessico da trade war. The Donald, a detta di Bloomberg, avrebbe già incaricato alcuni tecnici di predisporre una bozza d'intesa. L'indiscrezione è stata smentita da Larry Kudlow, consigliere economico della Casa Bianca, ma la spinta per un accordo sarebbe arrivata dalla telefonata di giovedì fra il leader Usa e quello del Dragone, Xi Jinping, definita «lunga e molto buona» da Trump; un portavoce degli Esteri cinese ha confermato ieri che i due presidenti hanno fatto progressi durante una «profonda discussione». Anche Pechino, alle prese con il rallentamento dell'economia, ha tutto l'interesse a mandare segnali tranquillizzanti alla popolazione e ai mercati. La Borsa di Shangai ha chiuso infatti ieri con un rialzo del 2,7%, mentre Wall Street (-0,8% a un'ora dalla chiusura) sembra scettica sulla possibilità di un agreement.
Al di là delle dichiarazioni ottimistiche, resta infatti qualche nodo sostanziale. Il primo è legato al fatto che, non più tardi di una settimana fa, Washington considerava Pechino «non pronta per un accordo» e minacciava di imporre nuove tariffe punitive per colpire tutti i prodotti made in China. Inoltre, il clima apparentemente più disteso arriva proprio nel momento in cui il deficit commerciale Usa nei confronti della Cina è esploso in settembre alla cifra record di 37,4 miliardi di dollari (+8,8%). Ma lo scoglio su cui rischia di arenarsi ogni possibile dialogo è quello che riguarda la disputa sulla proprietà intellettuale.
Proprio giovedì, il dipartimento di Giustizia statunitense ha formalmente accusato il gruppo Fujian Jinhua di furto di segreti industriali ai danni del produttore di semiconduttori Micron, assieme a un gruppo di Taiwan, United Microelectronics, e tre individui.
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