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Gli effetti del federalismo: se la Regione fallisce si vota

RomaDa ieri non ci sono più scuse. Con l’ok del governo al primo decreto attuativo del federalismo fiscale, quello che trasferisce i beni demaniali dallo Stato centrale agli enti locali, la musica cambierà. O si amministrerà la cosa pubblica con diligenza o le Regioni potrebbero essere costrette a dichiarare virtualmente fallimento con conseguente rimozione d’ufficio della loro classe politica.
Circostanza già anticipata mercoledì scorso dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, nel corso della conferenza dei dottori commercialisti. «Non possiamo portare i libri contabili delle Regioni in tribunale, però possiamo prevedere un deterrente molto efficace: se l’ente fallisce, si va ad elezioni». E, ha promesso, «nessuno dei politici responsabili del fallimento potrà ripresentarsi per un bel po’ di tempo».
Il via libera di Palazzo Chigi al federalismo demaniale è tutt’altro che simbolico. Alle Regioni saranno trasferiti i beni del demanio marittimo e del demanio idrico, ossia spiagge, fiumi (eccetto quelli interregionali che salvo accordi restano allo Stato) e laghi. Alle Province saranno conferiti i laghi chiusi (quelli senza emissario), le miniere e una quota dei canoni del demanio idrico proveniente dalle Regioni. Ai Comuni resteranno i beni immobili non demaniali. I beni culturali e della Difesa, quelli degli organi costituzionali nonché parchi nazionali, porti, aeroporti e reti (strade, ferrovie, ecc.) di interesse rilevante resteranno allo Stato.
Insomma, le Regioni e gli altri enti ottengono una fonte sicura di entrata con contestuale riduzione dei trasferimenti. Perciò sarà loro preciso dovere gestire meglio le uscite, cioè moderare le spese. Che solo per il capitolo sanità si aggirano sui 115 miliardi di euro.
«Sono contento, è una tappa molto importante», ha commentato il ministro delle Riforme e leader leghista, Umberto Bossi, che guarda già al futuro. Ossia all’arrivo in Parlamento entro il prossimo 30 giugno della tanto attesa relazione del governo sui costi del federalismo. Seguiranno il riordino dei tributi regionali e comunali (sulla «service tax» ipotizzata dal ministro Calderoli l’opposizione ha già annunciato battaglia) e la definizione dei costi e dei fabbisogni standard, ovvero i parametri in base ai quali ridefinire i costi delle prestazioni essenziali come sanità, istruzione e assistenza. Quell’ultimo passo sarà il decisivo perché fisserà, nero su bianco, il livello oltre il quale si può parlare di spreco se un posto letto nella Regione x costa il doppio che in quella y. «Prima faremo i decreti, meglio sarà», ha chiosato il ministro Brunetta.
Nel frattempo bisognerà studiare anche un adeguato ammodernamento del sistema fiscale. In fondo, l’Italia si appoggia ancora per buona parte sulla Riforma Preti-Visentini degli anni ’70, fondata su imposte dirette e centrali e poco conciliabile col federalismo. Tutto questo dovrà armonizzarsi con il controllo del debito.
Il ministro Calderoli ha sempre rassicurato tutti. «Non c’è bisogno di un euro», ha rilevato sottolineando che tra definizione dei costi e lotta all’evasione più stringente perché basata a livello locale, le uscite non aumenteranno.
La Riforma Visentini, ha spiegato Sacconi, è stata una delle cause del forte indebitamento pubblico. Non è un mistero che la centralizzazione della riscossione serva a manovrare più facilmente i capitoli di spesa per ottenere più consenso. Secondo il ministro del Lavoro, infine, ci sono alcune linee di intervento da seguire. In primo luogo, riorganizzare le strutture di spesa. E, soprattutto, promuovere il federalismo fiscale che è lo strumento più appropriato per responsabilizzare le Regioni.

Che o si adeguano o «falliscono».

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