Sollevò la testa di piombo nella luce platino del mattino. Era steso su un materasso di plastica in un container riconvertito, un ventilatorino muoveva l'aria tiepida della stanza.
Si lavò con delle salviette umidificate e indossò l'uniforme, una tuta nera di fibra sintetica. Sotto un sole che saliva in fretta attraversò il cortile di ghiaia dell'albergo fino alla stanza del collega. Non si conoscevano. Bussò alla porta di acciaio ondulato. Nessuna risposta. Bussò più forte.
Dei suoni confusi, poi venne ad aprire un uomo in ottima forma, nudo a eccezione di un paio di boxer bianchi. Aveva occhi scuri, la fossetta sul mento, una bocca larga e due labbra carnose, da donna. Un ricciolo nero gli copriva sbarazzino l'occhio sinistro.
«Scegli un numero.»
«Nove,» disse l'uomo sulla porta con un sorriso malizioso.
«Ok. Lo sai come si regola l'azienda coi nomi. Io non so il tuo, tu non sai il mio. Per le prossime due settimane sarai Nove. Tu chiamami Quattro.»
«Tu sei Quattro?»
«Tu mi chiami Quattro. E io ti chiamo Nove. Chiaro?» Per motivi di sicurezza l'azienda raccomandava pseudonimi semplici, possibilmente numerici.
«Chiaro,» disse Nove, e si tolse la ciocca dal viso, ravviandola indietro.
Erano arrivati senza passaporto. I passaporti erano solo una complicazione in un posto del genere, una nazione che si stava riprendendo da anni di guerra civile, infestata dalla corruzione e oggi oppressa da un nuovo governo illegittimo. Quattro e Nove avevano preso un volo privato sotto falso nome. In passato, in altre nazioni, c'erano stati casi di impiegati dell'azienda rapiti e uccisi. I rapitori si rivolgevano prima all'azienda, poi alle famiglie, poi alle nazioni di provenienza delle loro prede. Senza passaporti né nomi, però, uomini come Quattro e Nove erano anonimi e poco preziosi. La loro macchina, la RS-80, era quasi impossibile da rintracciare. Non portava il nome dell'azienda, né il numero seriale, non era iscritta a un registro nazionale. Nessuno fuorché i clienti dell'azienda, il governo del Nord, nella capitale, sapeva qualcosa di loro, la loro origine o il datore di lavoro.
«Pronto per mangiare?» chiese Quattro. «Abbiamo quaranta minuti. La squadra sta facendo l'ultimo controllo alla macchina.»
«Velocissimo,» disse Nove, e un sorriso gli riempì la bocca larga. Uscì all'aperto e si voltò a guardare il letto alle sue spalle.
Dietro al torace nudo di Nove, Quattro vide le lenzuola intorcigliate alle gambe muscolose di una donna addormentata su un letto. Nove non faceva niente per nasconderla. Sorrideva invece con aria complice. Quattro non lo aveva mai visto prima, e non si era mai attribuito capacità profetiche, ma in un istante seppe che Nove era un agente del caos e avrebbe reso il difficile lavoro che li aspettava ancora più difficile.
Nove sbadigliò: «Posso raggiungerti tra un minuto?».
Quattro chiuse la porta e attraversò il cortile, immerso nel calore giovane del mattino. La sala della colazione era umida di uomini chini sul loro cibo: uomini in giacca e cravatta, uomini in uniformi militari sbiadite, uomini in abiti tradizionali. Parlavano tutti a bassa voce tra il rumore delle posate di latta sui piatti di plastica.
C'erano pochi stranieri nella sala da pranzo improvvisata, annessa a questo nuovo albergo, che consisteva di due dozzine di container in un disordinato semicerchio. Dopo averlo aspettato mezz'ora, Quattro tornò alla stanza di Nove e bussò alla porta.
«Vengo!» gridò Nove, e la stanza si riempì di risate.
Quattro tornò alla caffetteria a bere dell'acqua in bottiglia. Dieci minuti dopo entrò Nove: si era fatto la doccia e infilato la tuta nera aziendale. Aveva optato per rinunciare al pezzo di sopra. Portava una maglietta bianca con il collo a v e le maniche della tuta gli penzolavano ai fianchi, accarezzando le spalle degli altri uomini mentre lui scivolava tra i tavoli per raggiungere Quattro.
«Non ti aspettavo per oggi,» disse Nove. «Gli aerei in queste lande non sono puntualissimi. Perciò ero in compagnia. Sei sposato?»
«No,» mentì Quattro.
«Non mangi?» chiese Nove.
«Già mangiato,» disse Quattro. In camera aveva finito un porridge liofilizzato con latte in polvere, un sacchetto di mandorle e una striscia di cervo essiccato, tutta roba che si era portato dietro. Aveva messo in valigia cibo sufficiente per i dodici giorni richiesti dall'incarico.
«Hai mangiato in camera?» disse Nove, offeso. «Non puoi farlo. Il cibo qui è ottimo. Be', magari proprio ottimo no, ma è intrigante.» Gli erano caduti i capelli sull'occhio sinistro e se li tirò indietro con un gesto teatrale.
«Be', ora mangio,» disse Nove e si incamminò verso il buffet, dove scelse mezzo pompelmo, un gran bicchiere di succo di mango, tre uova sode e dei frammenti di osso animale coperti di carne viola. Mentre riguadagnava il tavolo, le maniche della sua tuta ricominciarono a dimenarsi tra gli altri commensali. Quattro si guardò intorno per capire se qualcuno tra i locali, un assortimento di ex comandanti ribelli e speculatori appena arrivati, si stesse interessando a lui o a Nove. Nessuno. Lui e il compagno erano evidentemente stranieri in un posto in cui i visitatori erano per lo più volontari e ispettori delle armi, ed era meglio per loro passare inosservati.
Nove appoggiò il piatto e si lasciò cadere i capelli in avanti come i rami di un salice. Scansò le posate di latta e usò le dita per portarsi alla bocca le ossa di bestia selvatica e rosicchiarle, accompagnando la carne con del succo color del sole. L'azienda aveva sconsigliato di mangiare frutti locali in forma solida e liquida, e aveva pregato di tenere in conto che uova e carne potevano contenere escherichia coli, salmonella o verme solitario. Ma Nove divorava il tutto con abbandono, i capelli grassi a lambire oscenamente il piatto. Quattro non capiva cosa avesse potuto vedere in lui l'azienda. Era chiaramente inaffidabile.
«Ma lo sai quanto mi è costata?» chiese Nove con la bocca piena. Non aspettò la risposta di Quattro. «Meno di questa colazione. Ed è più fresca,» disse, pungolando con la forchetta il pompelmo grondante.
«La macchina ci aspetta,» disse Quattro. «La prima capsula è pronta. Quanto ti manca?»
Nove gli rispose con un ghigno: «Ah, ecco perché ti chiamano Orologio».
Quattro si alzò in piedi. «Trovati pronto fra dieci minuti.»
«Stai scherzando. Sono arrivato ieri,» rispose Nove. «Abbiamo un programma fitto. La città è una meraviglia. Passiamoci una giornata. E soprattutto un'altra notte.» Alzò un libidinoso sopracciglio. «Ti affitto la mia ragazza.»
Quattro sistemò la sua sedia sotto al tavolo. «Ci vediamo all'entrata fra dieci minuti. Porta gli attrezzi.»
THE PARADE © 2019
Dave Eggers
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione
ne I Narratori agosto 2019
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