Elementare Conan Doyle, risolto il caso Holmes

Poe, Stevenson, Gibbon e tanti altri. Ecco i libri da cui è nato il re degli investigatori. Lo rivela un saggio del suo creatore

Dallo Studio in rosso allo studio in verde. Ovvero, dalla scrittura alla lettura: cambia il colore, non la firma. Sempre di Arthur Conan Doyle si tratta. La tinta scarlet dominava l’antro del suo Sherlock Holmes al numero 221B di Baker Street, mentre i toni green erano quelli della sua biblioteca. Verde come la brossura di molti volumi e verde come il divano su cui immergersi in quelli che lui chiama «idilli ed emozioni di seconda mano».

Scritto nel 1907, Through the Magic Door è un curioso saggio autobiografico. Illustrando al lettore-visitatore i libri che lo hanno accompagnato dalla giovinezza alla maturità, sir Arthur traccia di sé un ritratto sincero e completo, in cui non mancano, accanto alle passioni meno letterarie (per il pugilato e la memorialistica dell’epoca napoleonica, in particolare), considerazioni di carattere generale su quello che è, o dovrebbe essere, il rapporto fra l’uomo, ogni uomo, e la pagina. «La lettura è stata resa troppo facile al giorno d’oggi, con le edizioni cartacee a buon mercato e l’accesso gratuito alle biblioteche. Un libro dovrebbe essere tutto tuo ancor prima che tu possa provarne veramente il gusto, e a meno che tu non abbia faticato per ottenerlo, non proverai mai il vero intimo orgoglio del possesso. Sheridan diceva che se tutte le pulci nel suo letto fossero state d’accordo all’unanimità, avrebbero potuto sbatterlo fuori. Non credo che nessuna unanimità di critici sia mai riuscita a far espellere un buon libro dalla letteratura».

Trascurata in patria, fra qualche giorno questa chicca comparirà, per la prima volta, in italiano per i tipi di Piano B edizioni (pagg. 160, euro 13, traduzione di Silvia Franceschetti) con un titolo filologicamente corretto, Oltre la porta magica, e un sottotitolo che strizza l’occhio alla creatura regina del poliedrico e onnivoro autore vittoriano: La biblioteca di Sherlock Holmes. Per quanto Conan Doyle, nel presentarci quello che diverrà il detective più acuto, razionale, freddo e, diciamolo pure... altezzoso della storia «gialla» ci dica che le sue conoscenze, in materia di letteratura, sono uguali a zero, chi abbia avuto una sia pur minima frequentazione con le indagini geometricamente perfette di cui il fido Watson ci dà conto non può non riconoscere, in tale resoconto, la solida base libresca che le sostiene.

Le figure che emergono, nella «gloriosa confraternita», sono infatti Edgar Allan Poe e Robert Louis Stevenson. «Il suo cervello - si dice del primo - era come un contenitore pieno di sementi che venivano sparse qua e là e dalle quali sono nati quasi tutti i tipi di racconti moderni inglesi». A lui spetta, insieme ai Saggi di Macaulay, il primo posto nella classifica ideale. È lui il maestro indiscusso del brivido assurdo, dell’orrore che s’annida nel quotidiano, della deduzione cristallina. Quanto al secondo, L’isola del tesoro e Il ragazzo rapito meritano il timbro dell’eccellenza, e rappresentano il secondo caposaldo cui sir Arthur fece sempre riferimento, quello dell’avventura (anche se «Quando Stevenson diventa uno scrittore che utilizza coscientemente uno stile, applaudito da tanti critici, mi sembra un uomo che, pur avendo dei riccioli naturali, li nasconde sotto una parrucca»).

Ma da dove viene, a Conan Doyle, la perizia dell’indagine psicologica, la sensibilità per il gesto e il tratto rivelatore di un carattere, chiave di volta di innumerevoli casi risolti dall’infallibile Holmes? Dall’arguzia di Dickens, certo, e dalla varia umanità descritta dai Richardson, dai Fielding e dagli Smollett. Ma come dimenticare la numero 1 delle biografie, quella di Samuel Johnson, in cui Boswell trasforma un Uomo in Personaggio? O la padronanza con cui Gibbon disegna declino e caduta dell’impero romano del quale, è detto fra le righe, l’inglese appare una parziale replica? E poi c’è Human Personality di Myers: «Tanto quanto Darwin è stato uno dei collezionisti più appassionati in materia di zoologia, Myers lo è stato delle zone tenebrose della ricerca psichica».

Walter Scott? Certo, come dimenticarlo? Balzac e Dumas? Sì, ma a piccole dosi. Hawthorne? No: «La colpa, ne sono certo, è mia, ma mi è sempre sembrato di ambire a qualcosa di più di quanto mi desse». Conan Doyle, uomo d’azione, in guerra e negli sport, non soltanto da scrivania e da divano, venera i suoi gioielli: «Gli impulsi ereditari, le esperienze personali e i libri: queste sono le tre forze che creano l’uomo».

Tuttavia non culla sogni di gloria: «Nessun uomo inventa uno stile. Esso proviene sempre da una certa influenza o, come accade più spesso, è un compromesso tra influssi diversi». I suoi, di compromessi non avranno esaltato i critici, ma hanno accontentato i lettori.

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