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Eleonora, resuscitata dalle ceneri «Papà, ti prego, non mi lasciare...»

nostro inviato a Teramo

La stanza di Eleonora Calesini, la studentessa «miracolata» estratta dalle macerie dopo 42 ore, è qui, dietro la porta scorrevole del reparto di terapia intensiva dell'Ospedale di Teramo. L'hanno messa in un box da due posti, vicino a un'altra sopravvissuta, con il suo camice verde, attaccata a una pompa, che le somministra liquidi e farmaci, e un ventilatore. Ma è viva, viva. Dopo più di due giorni vissuti all'inferno, sotto quel palazzo che le è crollato addosso. Prima di essere operata l'altra notte, ha raccontato la sua esperienza. Di miracolata: «Mi sento una che ha avuto un culo pazzesco...». E come si fa a darle torto. Quando i soccorritori la tirano fuori, è lucida e cosciente. Guarda suo padre negli occhi, che era lì ad aspettarla da giorni, lo riconosce subito: «Papà, papà, non lasciarmi ti prego...». Non ora, non adesso che può rivederlo e toccarlo con le sue mani. Giusto la sera prima della tragedia gli aveva detto di stare tranquillo, che quelle scosse in Abruzzo erano abitudine ormai e che non c'era motivo di preoccuparsi. E poi, appassionata di cinema com’è, della sua facoltà all'Università dell'Aquila, non ne voleva sapere di tornare dai genitori a Mondaino, vicino a Rimini. «Avevo una verifica da fare proprio lunedì». Per nulla al mondo ci avrebbe rinunciato. Lei che si è trasferita qui per realizzare il suo sogno e diventare una professionista di montaggi ed effetti speciali, non si sarebbe certo lasciata spaventare dalla terra che trema. Vuole fare carriera. Ha la testa solo per quello. E non c’è tempo per un fidanzato. «Le ho regalato una penna con cui fare gli autografi e lei mi prende sempre in giro dicendomi che sono vecchio», racconta lo zio Roberto. Eleonora è fatta così. Eppure quelle scosse le aveva sentite anche papà Luigi dall'Emilia Romagna. «Erano arrivate fino a Forlì, le avevo detto che sarebbe stato meglio tornare, ero in pensiero».
La casa di Eleonora è nel quartiere Villa Gioia a l'Aquila, ci vive insieme a tre amiche. Quando è arrivata la prima scossa all'una e mezzo di notte, una di loro aveva deciso di andarsene a dormire in auto. Lei invece, che ha problemi di udito da quando è nata, rimane, si mette il pigiama e va a dormire nella stanza vicino alla porta d'ingresso, proprio dove l'hanno trovata due giorni più tardi. Se non fosse stata lì, forse non si sarebbe salvata. È appena uscita dai detriti ed Eleonora pensa subito alla sua amica. «Enza. Ditemi dov'è Enza?». Poi si abbandona ai soccorritori. Enza non ce l’ha fatta. E lei ancora non lo sa.
Papà Luigi sta lì seduto su una panchetta dell’ospedale, con la moglie vicino. Chiude gli occhi, intreccia le dita e prega. La speranza di riabbracciare la figlia se la tiene stretta in quella presa. In fondo sa che ce la farà, che Eleonora è forte, ha resistito tutto quel tempo sotto un palazzo, perché dovrebbe mollare proprio ora? Ed è come se il loro destino lo avesse affidato a Dio, con quella preghiera: «Sono credente, sa? E questo per me è un miracolo». Pazienza se i medici ogni volta che varcano quella maledetta soglia, gli spiegano che bisogna ancora aspettare. Pazienza se ci sarà da passare un'altra notte qui nella sala d'attesa in mezzo al nulla: «Cosa vuole che mi importi? Ormai non sento più nulla, non ho fame, non ho sete, non dormo». Eppure è lui il segno della speranza in questi giorni d'inferno, lui, sua figlia Eleonora e la madre Lidia che possono ridare un barlume di fiducia ad una regione disperata: «L'unica cosa che vogliamo è che sia fuori pericolo», ripetono il padre e la madre. «Sono rimasto due giorni davanti a quella palazzina lì fermo, immobile. Non avevo la forza di spostarmi e come avrei potuto? Guardavo questo cumulo di macerie, ed ero sempre più disperato. Poi mi hanno detto che c'era Eleonora e ho iniziato a scavare con le mie mani». Insieme allo zio, hanno rotto i cordoni della protezione civile e sono corsi dalla ragazza. Ora sì però che sente la stanchezza papà Luigi, ha le gambe pesanti, ogni tanto pur di non stare seduto su quella dannata panchetta si alza e vaga per la sala d'attesa: «Certo che potevano pensarci prima, costruire case migliori. Quella dove viveva mia figlia l'hanno fatta nel 1965, gli anni peggiori dell'edilizia». Mica come a Mondaino, dove stanno loro. Un piccolo paese di 1.400 abitanti o poco più, ma pieno di bei posti da visitare, giura il signor Luigi. Chissà dove trova la forza per riuscire ad essere così leggero. La moglie se lo viene a riprendere, come se volesse riportarlo alla realtà e ricordargli che sono davanti alla porta della terapia intensiva, che là dentro c'è ancora la loro bambina: «Ma io l'ho vista quando l'hanno tirata fuori. Aveva il viso sereno, come se non fosse successo niente.

Un miracolo».

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