«Elisabeth», quando il cineasta faceva il romanziere

Un racconto morale ambientato a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 che si interroga sulla lealtà nella coppia

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Stefania Vitulli

«Perché essere cineasti se si può essere romanzieri?». Così Rohmer chiudeva su La Nouvelle Revue Française del marzo 1971 la «Lettera a un critico» a proposito dei suoi Six Contes Moraux, racconti pubblicati in Francia nel 1974 e in Italia nel 1988 da Einaudi con il titolo La mia notte con Maud. Quei racconti divennero poi altrettanti film, «perché non ero mai riuscito a scriverli abbastanza bene» prosegue Rohmer. Nacquero in un periodo in cui Jean-Marie Maurice Schérer, vero nome del regista, classe 1920, opera prima il cortometraggio Journal d'un scélérat del 1950, ancora non sapeva che si sarebbe dedicato al cinema. Ma prima di scegliere la strada del cineasta, Rohmer pubblicò un romanzo, il suo primo ed unico, Elisabeth. Antecedente ai Racconti, mai divenuto un film, sinora inedito in Italia e ormai introvabile anche in Francia, dove uscì per Gallimard nel 1946 firmato con lo pseudonimo Gilbert Cordier, Elisabeth viene pubblicato in questi giorni nella collana Oscar Mondadori.
Ambientato nel 1939 nella campagna francese nei pressi della Marna, Elisabeth è una raccolta di scènes de vie che si susseguono senza soluzione di continuità, fitte di dialoghi e situazioni intime, di monologhi interiori, di gesti minimali, baci, pianti, scambi di fiori, ingressi e uscite di scena. Alla fine, conosciamo nel profondo i pensieri della dolce Elisabeth, dell'inquieto Michel, della capricciosa Irène e di sua madre, la saggia Madame Luzières, dell'istintivo Bernard, della comprensiva Claire. Sappiamo come amano vestirsi e riconosceremmo, all'occasione, gli odori del loro giardino in agosto, quasi settembre, la stagione in cui si svolge l'azione. Elisabeth contiene già tutto lo stile di sceneggiatura, regia e montaggio di Rohmer. Chi ha avuto tra le mani uno dei suoi copioni, ritroverà in Elisabeth, impaginata come un romanzo, ma non per questo meno nostalgica della dimensione cinematografica, la peculiarità ad essi propria: i dialoghi attraversano tutta la pagina e le didascalie d'azione sono all'essenziale, in maniera inversamente proporzionale alle sceneggiature classiche.
Se i film di Rohmer sono riconoscibili, è per un fatto soprattutto: i suoi personaggi parlano. Continuamente. E questa impronta stilistica non può che ricondursi a Rohmer scrittore: romanziere, novellista, saggista (ricordiamo Hitchcock, scritto a quattro mani con Chabrol) e critico cinematografico, direttore dei Cahiers du Cinéma dal 1957 al 1963. «Nel film il rapporto di potere è invertito - afferma Rohmer, sempre nella “Lettera a un critico” -. La regia è sovrana e il testo è al suo servizio». In questo senso Elisabeth, anche se non lo è mai diventato, è un film, più che un romanzo.

Tanto che nei rari momenti in cui la scrittura, con la sua elaborazione lirica e immaginifica, prende il sopravvento, come nel disperato stream of consciousness di Michel sull'odio-amore per Irène, ci sentiamo straniati. Finché i codici del cinema ci vengono in aiuto e Michel diventa una rassicurante, pervasiva, monotonica voce fuori campo.

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