Non capisco nulla di sport. Però dal punto di vista antropologico, e un po’ per competenza territoriale, m’incuriosisce questo fatto: perché tutti gli ori femminili vengono vinti da campionesse nate nella mia regione? Veneta di Mirano (Venezia) è Federica Pellegrini, da domenica primatista mondiale nei 400 stile libero dopo aver trionfato l’anno scorso alle Olimpiadi di Pechino nei 200. Veneta di Venezia è Dorina Vaccaroni, cinque ori mondiali (quattro a squadre e uno individuale) nel fioretto. Veneta di Padova è Novella Calligaris, prima atleta a conquistare una medaglia olimpica nel nuoto. Veneta di Rivoli (Verona) è Sara Simeoni, due volte primatista mondiale di salto in alto, oro a Mosca nel 1980.
Sarà che mentre scrivo ricorre l’ottavo anniversario della morte di Sergio Saviane, veneto che più veneto non si poteva, gran consumatore di Prosecco, ma il primo indizio che mi viene in mente per spiegare la singolarità è il seguente: «Làte e vìn fa un bèl butìn». O anche: «Pàn e vìn fa un bèl butìn». Lo attesta una ricerca che coinvolse i «butìni», i ragazzi, della provincia di Vicenza e che fu presentata nel 1997 al congresso nazionale della Società italiana di alcologia: il 32% dei 1.025 alunni delle scuole medie inferiori interpellati avevano imparato a consumare a tavola, su raccomandazione dei genitori, «un dito di vino diluito nell’acqua». Perché «el vìn fa fòrsa», dà energia. Ma poi mi convinco da solo che non c’entra nulla, che non può essere vero, sono definitivamente tramontati i tempi di cui mi parlava il professor Cesare Montecucco, il patologo dell’Università di Padova che ha scoperto come agisce il batterio dell’antrace: «I miei compagni delle elementari arrivavano in classe un po’ ciucchi dopo aver fatto colazione con una scodella di pane e vino».
Allora mi dico che deve esserci di mezzo la «grandéssa» dei veneti, grandeur per i francesi, frutto di una determinazione caparbia e sognatrice, qualcosa che ci portiamo nel genoma da quando riuscimmo a tirar su Venezia dall’acqua dove marcivano le palafitte. La chiamammo Serenissima, perché siamo inclini più al sorriso che alla baruffa. Ma fu conosciuta nel mondo anche come la Dominante, e questo vorrà pur dire qualcosa visto che stiamo parlando di supremazia sportiva femminile. Sta di fatto che quel primo record mondiale - una repubblica durata 1.100 anni - non ce l’ha più fregato nessuno e sì, vabbè, ci sarebbe San Marino, ma vuoi mettere, e in ogni caso quante primatiste vanta la Repubblica del Titano?
La vocazione della gente di queste terre fu un giorno così riassunta da Feliciano Benvenuti, giurista nato a Padova e morto a Venezia, presidente di Palazzo Grassi e della Fondazione Cini: «El veneto el vól savér far prima de far savér», il veneto vuol saper fare prima di farlo sapere. Sottinteso, in giro. Teme le brutte figure, per cui si prepara bene, studia, fatica, suda, in una parola, e per tornare al tema, si allena seriamente. Con l’unico rischio, dopo aver preso in mano il boccino, che non te lo molli più - si regolino le avversarie di Federica Pellegrini - e non è un caso che a Milano, cui a torto viene attribuita l’esclusiva dell’intraprendenza, si usi frenare gli immigrati da altre regioni che dimostrano zelo eccessivo nel lavoro con un’esortazione eloquentissima: «Fa’ no el venessia», non fare il venezia.
Ma fare il venezia, cioè voler saper fare prima di farlo sapere in giro, non sembrerebbe una peculiarità femminile. Dunque siamo punto e accapo: perché ai tanti exploit sportivi delle venete non corrisponde un analogo numero di titoli mondiali dei veneti? Gli anticlericali ci vedranno l’affrancamento dalla maledizione maschilista pronunciata da Pio X, il Giuseppe Sarto originario di Riese (Treviso): «La dòna bisogna che la piàsa, che la tàsa, che la stàga in casa», quindi un riscatto sociale, un’emancipazione rabbiosa che nasce dall’orgoglio femminile se non femminista. Le famiglie della buona borghesia romana si convinceranno invece che è andato perso per sempre lo stampo della servetta veneta tanto ignorante e un poco zoccola, la Lina del film di Renato Castellani che finiva innocente nella prigione delle Mantellate accusata d’aver rubato per favorire il suo amante. «Nella città l’inferno», spiegava bene il titolo.
Io ci vedo semmai la conferma di ciò che su certe donne venete scrisse un poeta della mia città, Berto Barbarani, rimasto fino all’ultimo in fitta corrispondenza con Trilussa: «Le par fate par portar Verona, svelte e tremende». Così è ancor oggi: capaci da sole di reggere il peso di un’intera città. Molto più ardimentose, molto più serie, molto più abili di noi maschi, nella vita come nello sport.
Questo non mi esime dal chiedermi se sia davvero sempre e tutto oro quel che luccica. Federica Pellegrini, per esempio. Profetica la copertina di Vanity Fair che due settimane fa la raffigurava accovacciata nuda, e verniciata appunto d’oro, su una poltrona di vimini stile Sylvia Kristel in Emmanuelle. Ma sarà davvero la ragazza d’oro che dentro l’acqua fila a oltre 6 chilometri orari con la sola forza delle braccia? L’ho cercata ad aprile per annunciarle che la giuria del premio Masi Civiltà Veneta, presieduta da Isabella Bossi Fedrigotti e di cui faccio parte, era intenzionata ad attribuirle il riconoscimento che in 28 anni è andato a personaggi quali Susanna Tamaro, Mario Rigoni Stern, Ermanno Olmi, Marco Paolini, Giuseppe Sinopoli, Luigi Meneghello, Hugo Pratt, Andrea Zanzotto, Biagio Marin, Anna Proclemer, Uto Ughi, Gillo Dorfles, Antonia Arslan. In cambio si richiedeva la sua disponibilità per sabato 3 ottobre nella città di Alberto Castagnetti, l’allenatore che l’ha creata. Mi ha risposto con degnazione di rivolgermi al suo agente. Di commercio, suppongo.
Posso dirlo? Al telefono con la campionessa, ho avvertito nelle sue parole il sinistro scricchiolio della ruggine. Non quella delle giunture, per il momento ancora ben oliate. Ma quella dello spirito sì.
Senza rancore. Da veneto a veneta.
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