So per certo che il «bombarolo» in attività nei primi anni Settanta fra le mura grigie e calcinose del mio liceo, oggi è uno stimatissimo ingegnere. Ho detto oggi? Altro che oggi, da almeno vent'anni, ormai. Non ho certezze sul numero dei suoi figli, due o tre, credo, che probabilmente avrà iscritto alle scuole private, memore dei propri trascorsi pubblici. Ma è sicuro che a quel tempo, se i suoi compagni di classe volevano strappare un 6 nel compito di matematica, dovevano copiare dal suo. Perché lui, del quale qui non voglio rivelare nemmeno le iniziali (i tempi di prescrizione dei reati sono troppo brevi per alcuni e troppo lunghi per altri) oltre a essere un bombarolo era anche e soprattutto, nell'economia, anche domestica, dei suoi pari, un secchione.
E poi, a pensarci bene «bombarolo» è parola troppo grossa, più correttamente si dovrebbe parlare di petardologo e petardofilo, perché i botti che ogni tanto rimbombavano dalla palestra o dal cortile durante le lezioni erano scoreggine di neonati in confronto a quelli assassini di cui si parlava al telegiornale. Diciamo piuttosto che quei botti, sommati al «contesto» in cui si viveva («contesto» era una parola che cominciavano a usare tutti, a quel tempo, anche i prof di italiano quando spiegavano I promessi sposi «nel contesto del romanzo storico europeo»), servivano al Nostro per dare ogni tanto credibilità all'altro pezzo forte di cui possedeva l'esclusiva: l'«allarme bomba».
Funzionava così: egli («egli» sta bene, vicino ai Promessi sposi) da una cabina telefonica qualsiasi, purché a non meno di un chilometro dal liceo, verso le otto chiamava qualcuno, camuffando la voce con un fazzoletto, tipo gli attori nei film gialli, e millantando di aver posizionato nell'«istituto» un «ordigno esplosivo». Diceva esattamente così: «istituto» e «ordigno esplosivo», come nei temi. Mai però osava chiamare la polizia o i carabinieri, e questo occorre dirlo come attenuante generica del «procurato allarme». Chiamava il custode, il povero G. (qui l'iniziale del nome gliela devo - quante ne ha passate, prima di andare in sospiratissima pensione ben oltre la quota 100!). Inutile sottolineare che in quelle mattine nel nostro liceo non scoppiava nemmeno una misera miccetta da micro-teppistelli delle elementari. Però il tam-tam si metteva puntualmente in moto e, per farla breve, scattava quella che potremmo chiamare la «bigiata globale autorizzata». Che durava un paio d'ore, quante ne bastavano alle forze dell'ordine per arrivare sul posto, passare davanti alla folla di presunti rivoluzionari con la cacarella per l'interrogazione di scienze o di storia ammassati sul marciapiede, lanciando intorno occhiate di rimprovero e fare il controllo di routine, sempre negativo.
Ora, come dovremmo catalogare il bombarolo per finta di quaranta e più anni fa? Una mente bacata sottratta alla lotta armata? Un nichilista a salve? Uno spostato fuori posto? Un esibizionista in incognito? Oppure, per restare fra i banchi scolastici, un Franti? Ecco, «un Franti» sarebbe, per chi gli volesse affibbiare un'etichetta buonista, la definizione più calzante. Però è un fatto che lui per 361-362 giorni l'anno era, al contrario, «un Garrone», anche se mingherlino e fra i peggiori in educazione fisica. Quando faceva copiare il compito di matematica, si comportava infatti come il «buono» per antonomasia presente in tutti i codici scolastici del mondo, e quando telefonava a G. che cosa faceva, pur coperto dall'eskimo dell'anonimato, se non assumersi colpe non sue? Perché qui sta il punto. La voglia di approfittare del «contesto» per prendersi uno spicchio di libertà era a sua volta insita nel «contesto», accomunava cioè la «palude» qualunquista e/o democrista, i «montagnardi» marxisti immaginari e i «girondini» fascisti per parte di nonno repubblichino.
Ma quello del bombarolo immaginario non lo definirei un gesto di ribellione. Per un motivo molto semplice: a differenza della rivoluzione, che è collettiva per sua naturale costituzione, anche se eterodiretta da una ristretta élite o aspirante tale, la ribellione è soltanto individuale. Lo si impara proprio a scuola, in modo trasversale, implicito, molto probabilmente sottaciuto e inconsapevole, studiando le peripezie di certe figure eroiche dell'epica, o le conquiste di certi scienziati che hanno potuto fare ciò che hanno fatto perché erano extra-sistema, o riflettendo sull'orgogliosa marginalità di certi viaggiatori che hanno allargato i confini del mondo. Il virus della ribellione non diventa mai un'epidemia, men che meno a scuola, dove si è tutti minorenni e vaccinati, e dove ci si allena a coltivare il proprio orticello per poi continuare a farlo fino alla tomba. Il virus della ribellione colpisce uno per educarne cento, parafrasando il ben noto luogo comune. La ribellione è una scelta personale, esula dal registro narrativo da libro Cuore, quel pedagogico bestiario in cui il solerte notaio sabaudo Edmondo De Amicis nel 1886 catalogava, a beneficio dell'Italia unita, tipi e caratteri di una terza elementare qualsiasi come fossero i «prodotti tipici regionali» elencati nel manuale di geografia. E per un Franti dipinto come genio del male, esempio negativo da mandare a memoria pescandolo da quella sorta di libretto delle istruzioni per costruirsi un futuro dignitoso, ci sono mille Bottini, mille Derossi, mille «tamburini sardi» e mille «ragazzi calabresi».
La conferma giunge da un romanzo scritto oltre un secolo dopo Cuore, nel 1989, ma con il cuore gonfio di largamente condivisibile spirito di ribellione nei confronti del perbenismo dei buoni sentimenti obbligatori. Inzuppato come un biscotto, fra l'altro, nell'iperproteico latte della liberale-liberista-libertaria Olanda. È il romanzo d'esordio di Herman Koch, autore che abbiamo imparato a conoscere e apprezzare per la sua capacità di strappare ai suoi personaggi (seriosi padri e madri di famiglia, fanciulli bizzosi, rinomati professionisti, firme prestigiose, brillanti docenti) le maschere che loro non si tolgono nemmeno sotto la doccia. Il titolo originale è Red ons, Maria Montanelli, cioè «Salvaci, Maria Montanelli», ma Neri Pozza, che lo manderà nelle librerie giovedì prossimo, ha scelto un titolo più immediato e migliore: La scuola (pagg. 126, euro 15, traduzione di Stefano Musilli).
L'immaginario istituto «Maria Montanelli» di una città che ha tutta l'aria di essere l'Amsterdam dell'autore, si chiama così perché vi si praticano i metodi cari a Maria Montessori, l'educatrice e filosofa italiana morta guarda caso in Olanda, a Noordwijk, nel 1952. «Avevano ragionato a fondo proprio su ogni aspetto, alla nostra bella scuola: ciascuno poteva lavorare secondo i suoi ritmi, con un enorme senso di responsabilità individuale, e si teneva sempre conto delle esigenze del singolo alunno, e tutto questo genere di cose che ti fanno venire il mal di testa se solo ti trovi a dover spiegare a qualcuno cosa vogliano dire in sostanza», dice l'io narrante, studente di quel liceo. Il ragazzo, che lontano dai banchi ha già da fronteggiare grossi problemi, con un padre giornalista buono a nulla che cornifica la moglie malata terminale, mostra una sensibilità alla Törless e un realismo/cinismo alla Holden Caulfield alle prese con quella che gli appare una finta Arcadia, uno «stato di natura» plastificato.
Fra stronzetti che si atteggiano a geni incompresi, genitori che sono o ricchi e ignoranti o, peggio, mediamente borghesi e intellettualoidi e infine professori che ricordano quelli dello sperimentale «Marilyn Monroe» in Bianca di Nanni Moretti, il narratore non compie né finge di aver compiuto, diversamente dal mio ex compagno di liceo, qualche gesto eclatante.
Nemmeno quando deve convivere con un coetaneo handicappato che tutti fingono di amare mentre lui odia cordialmente da quando capisce che, come si dice, «ci marcia su». No, quel simpatico ribelle solitario, polemico, scorbutico e schietto fa qualcosa di molto più importante, e bello, e giusto: ragiona con la sua testa. In fondo la scuola dovrebbe insegnare soprattutto questo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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