Il governatore di sinistra uscente dell’Emilia Romagna, Vasco Errani, vince le elezioni, come ampiamente previsto. Ma non solo non convince. Di più: il 62,7% ottenuto nel 2005 si è ridotto di oltre dieci punti, intorno al 52 per cento. Almeno 250mila elettori (al netto dello scarto dovuto alle maggiori astensioni) hanno voltato le spalle ad Errani ed alla lista di stampo prodiano che governa la Regione. Nello stesso tempo la Lega ha ottenuto il 13,4% dei voti, record assoluto per queste terre. Ecco i due risultati più significativi del voto nell’Emilia, sempre meno rossa. Insieme con l’affermazione del movimento Beppe Grillo, il cui candidato, Giovanni Favia, ha portato a casa quasi il 7% dei voti, come in nessuna altra regione. Il risultato emiliano non è solo la misura della temperatura politica in una delle cosiddette «roccheforti rosse».
Ma è anche una prova importante per la leadership di Pierluigi Bersani, il segretario del Pd, che è emiliano pure lui. Questa è la sua regione, qui Bersani si è speso in campagna elettorale, tra la sua gente. Ebbene, a caldo, i segnali non sono certo positivi. Né per la roccaforte, non più tanto sicura, né per Bersani, che deve incassare la forte protesta di una buona parte dei suoi ex elettori. Un risultato effetto di una duplice causa. Da un lato la miopia di una classe politica che ritiene ancora, nonostante i campanelli di allarme da 10 anni a questa parte, a iniziare dal caso Guazzaloca, di essere inattaccabile. Dall’altra il caso Delbono: le dimissioni del sindaco, anch’esso prodiano, di Bologna, spazzato via dopo solo 6 mesi di governo da uno scandalo di sesso e soldi. D’altra parte correva il giugno 2009, meno di un anno fa, quando l’avanzata della Lega in Emilia era ormai evidentemente un fatto non più episodico. Già dalle politiche del 2008 la tendenza era stata chiara: dal 4,8% delle regionali 2005, al 6,3% alle politiche 2006, si era arrivati all’8,4%.
Ma dopo le elezioni europee del giugno scorso (insieme con la consultazione valida per l’80% dei comuni della regione, compresi Bologna, Ferrara e Forlì, e per le province di Ferrara, Parma e Rimini), l’avanzata era apparsa addirittura massiccia, arrivando all’11,1% del totale regionale. Eppure, di fronte al fenomeno, si sono levate solo sprezzanti barricate. Per esempio, la sola idea che la Lega potesse inserirsi nel mondo delle cooperative rosse, e magari affacciarsi sul polmone finanziario Unipol ottenendo una rappresentanza che rispecchiasse le mutate geografie politiche, ha letteralmente fatto infuriare i vertici della cooperazione. L’altra Lega, quella delle coop, in Emilia conta 1.500 realtà economiche, 3 milioni di soci, 145mila addetti, per un totale di ben 30 miliardi di giro d’affari: come si può pensare che un tale movimento non sia stato anch’esso toccato dal fenomeno Lega. Chissà quanti elettori, tra quei 3 milioni di soci, hanno scelto il partito del segretario Angelo Alessandri. Invece niente. Per gli apparati del vecchio Pci si trattava di lesa maestà. Né è seguita una seria analisi della sorprendente avanzata leghista. Come se non esistesse, negando l’evidenza. In realtà qualcuno, nelle coop, si è accorto del problema. Il dubbio che si insinua è che la cooperazione perda progressivamente il motivo di essere «rossa».
Al di là della storia e dei valori sociali, l’appartenenza politica a sinistra garantirà sempre meno quel presunto canale preferenziale con la politica dentro agli enti locali. Non a caso ci sono già autorevoli esempi di manager della cooperazione che fanno affari con il «nemico». Mentre il vertice, l’apparato, ancora non capisce. Un po’ come accadeva, in fin dei conti, in Unione Sovietica mentre crollava il Muro di Berlino.
La vicenda Delbono ha fatto il resto. Chi ha l’occhio lungo se n’era accorto già l’11 marzo scorso, quando al Parco Nord di Bologna Bersani ha incontrato Errani insieme con i segretari locali del Pd. Bologna, le elezioni, il Pd: roba da scaldare i cuori, tifo da stadio, entusiasmo e poi tutti in osteria. Invece chi c’era e non ha perso spirito critico, se n’è andato direttamente a letto, annoiato e un po’ depresso. Nessuno era riuscito a risollevare le sorti di una coalizione affondata dalle dimissioni di Flavio Delbono, il sindaco di Bologna che se n’è andato il 25 gennaio scorso, travolto dal Cinziagate: avrebbe usato fondi pubblici per pagare viaggi e cene con la sua ex segretaria e amante Cinzia Cracchi.
Solo un anno prima lo stesso Bersani e Prodi erano stati gli sponsor di Delbono alle primarie per il Comune, strappandolo proprio ad Errani, di cui era il vice, con la delega alle Finanze.Una storiaccia che la sinistra emiliana, e bolognese in particolare, non ha dimenticato. E sulla quale ha fatto senz’altro leva Beppe Grillo, votato qui più che altrove dagli scontenti del Pd.
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