Emiliano Zapata il padre del Messico è un mito sbiadito

Pochi monumenti e cerimonie scarne La storia studiata solo in alcune scuole

Emiliano Zapata il padre del Messico è un mito sbiadito

da Città del Messico «Come ai suoi tempi, i governi hanno tentato d'ingannarci. Parlano e non mantengono le promesse, massacrando i contadini. Firmano carte, ma niente succede. Restiamo senza terra, mentre i ricchi s'ingrassano. Continueremo a lottare, mio Generale, perché senza terra e libertà, non ci sarà mai pace».

È l'accorata lettera che nel 1997, il subcomandante Marcos scrisse per lui, il mito assoluto del Messico, Emiliano Zapata Salazar, il protettore dei contadini poveri, degli indigeni schiavizzati, ai quali restituì a colpi di fucile le terre da coltivare e la dignità per lottare. Oggi, a cent'anni dalla morte, sono in pochi a ricordarsi queste parole nel Messico moderno e capitalista del ventiduesimo secolo, 122 milioni di persone, tra cui, Carlos Slim, il terzo uomo più ricco del globo terracqueo, che negli anni Novanta ha venduto un cellulare a cinquecento milioni di latinos. Nell'immensa terra che non vuole il muro, «una pisciatina che non chiude nemmeno un terzo della frontiera», dicono i messicani, consapevoli che il loro maldito paese fa da transito per il flusso costante di poveri che proviene dagli inferi del Sudamerica e tenta di bucare quel muro, le gesta di Zapata non hanno più molta presa, perse tra i programmi scolastici e la nebbia della storia. Se per i cinquantenni è un mito ormai distante, per cui mostrare un'educata indifferenza, anche i ventenni, freschi di studi, lo confondono, mentre il baluardo alla sua memoria sono i ragazzi delle scuole medie che lo incontrano nel programma. Lo conferma a Il Giornale Yunnuen Monserrat V.G., 12 anni, studentessa della Scuola Media Alfred Nobel di Guadalajara, che non è sprovveduta in materia. «Zapata è stato uno dei più importanti leader militari e contadini della Rivoluzione messicana. Ha combattuto per la giustizia delle più umili classi rurali che sono state ridotte in miseria da una politica tiranna che gli ha portato via le terre».

Alle medie aiuta anche un patriottismo vecchio stile, con l'obbligo di cantare l'inno nazionale ogni lunedì mattina durante l'alzabandiera. Un minimo collante con i miti della storia moderna. Emiliano Antonio E.G., 13 anni, studente della Maestro Ernesto Alconedo di Città del Messico ha le idee chiare: «Penso che Zapata sia una delle figure più rappresentative del Messico e senza di lui la storia non sarebbe la stessa. È riuscito a unire molte persone con un unico obiettivo per diventare la loro voce. Mio padre mi ha chiamato Emiliano proprio in suo onore». Diamo, quindi, per sventato il rischio che sia confuso con Duván Zapata, attaccante della nazionale colombiana. Ma non aiuta la volontà del governo di non celebrare nascita e morte di Zapata, nemmeno con un giorno di festa nazionale.

La leggenda dell'irriducibile che preferiva le pallottole al dialogo (con certa gente) si celebra, in sordina, nel piccolo paese di Chinameca, nello stato del Morelos, dove il 10 aprile del 1919 Zapata fu ucciso a tradimento per mano di Jesús Guajardo, su mandato del primo presidente del Messico post rivoluzionario, Venustiano Carranza. El caudillo del Sur, il generale del sud, come fu soprannominato in quegli anni di dolore e speranza, quando i campesinos gli imploravano giustizia, lottando per il diritto a scioperare e il riconoscimento dei sindacati. Nel Messico delle disuguaglianze abnormi e delle menzogne di Stato, dove lo strapotere dei latifondisti sostenitori di Porfirio Dìaz mandava al massacro contadini e nativi, Zapata lanciò il grido Reforma, Libertad, Justicia y Ley, mettendosi a capo di un ampio esercito di braccianti, straccioni, indios e meticci, il leggendario Ejército Libertador del Sur (ELS) che, più di un secolo dopo, il misterioso subcomandante Marcos, tentò invano di imitare.

Forse perché si studia solo alle medie, il mito del generale dei poveri, si estranea dalla cultura. Del resto in tutta Città del Messico non c'è un suo monumento, appare soltanto dipinto nel murales di Diego Rivera presso il Palacio nacional dove Zapata è con Felipe Carrillo Puerto e José Guadalupe Rodríquez in mezzo a una moltitudine di indios dietro allo striscione con lo slogan Tierra y Libertad! Lo celebra anche la sesta fermata della linea 3 della Capital, che porta il suo nome e ha varie fotografie di lui. Omaggi più consistenti al martire della rivoluzione sono a Cuernavaca, 70 chilometri a sud della capitale, con una statua di lui a cavallo e a Ciudadad Juarez, la città in mano ai narcos, la più violenta al mondo: in un parco anonimo e periferico spoglio d'alberi, attraversato da calle Álvaro Obregón, su un piedistallo modesto c'è la statua ancora più modesta di Zapata, armato di sombrero e cinturone, che punta il fucile contro un adiacente fast-food di pollo fritto. Madre de Dios, que horror!

E ora che dal 2014 anche il subcomandante Marcos, dopo tre decenni di lotta incappucciato, è ritornato alla sua vita anonima, abbandonando la revolución e delegandola alle Ong tedesche, le uniche ancora interessate ai diritti degli autoctoni, ai messicani, fa male dirlo, interessa ben poco celebrare il suo mito.

Come ai vari esecutivi messicani è interessato sempre poco risolvere la questione degli indios, diventata, alla fine, una pelosa elemosina di Stato. O una colpa di paesi come Spagna e Portogallo, come ha ricordato due settimane fa, sorprendendo persino re Felipe VI, il presidente messicano Manuel López Obrador.

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