Essere degli zingari è molto meglio che essere dei rom

Caro Granzotto, l’impressione che si ha seguendo quel po’ che basta le notizie dall’Italia e dal mondo è che la gran febbre ecologica con i suoi eccessi catastrofisti ma anche con le sue piccine manie stia velocemente scemando. È infatti un pezzo che non leggo di cose e case biocompatibili o ecocompatibili, di energia alternativa verde (hanno giovato anche gli scandali sui parchi eolici), di impronta ambientale, per non parlare del famigerato global warming che mi pare sia stato definitivamente archiviato. Resiste un po’ la pubblicità, con i richiami al «verde» (l’ultima che ho letto è di una ricarica per telefonino a pannellini solari. Si risparmia energia sporca, se ne adopera di pulita, ma se si legge fino in fondo il proclama ci si accorge che la batteria del telefonino non si ricarica pienamente nemmeno lasciandolo per ore sotto il sole battente) e qualche imbonitore televisivo, però, onestamente, possiamo ben tirare un sospiro di sollievo. Purtroppo noto che non dà cenni di allentare un po’ la morsa l’altra sciagura, quella del politicamente corretto. In soli quattro giorni mi è capitato di sentire alla radio e di leggere su un settimanale tre volte la dizione «nativi americani» (che so farla molto arrabbiare) al posto di indiani o di pellerossa e, in rapporto a una ventilata misura di prevenzione delle ferrovie, una valanga di «etnia rom» per indicare gli zingari. Ma non siamo precipitati nel ridicolo? Etnia rom? Non voglio rubarle il mestiere, ma mi sono informato e l’etimologia di zingaro non porta con sé nulla di offensivo, venendo da athingan, nome col quale si indicava il governatore di una colonia, poi diventato stato indipendente presso il fiume Eufrate. Cambiatosi il «th» in «z» ne venne fuori azingan, che suona molto vicino a zingaro.
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Certo che noi italiani siamo proprio speciali: con tutti i nomi a disposizione, in un delirio politicamente corretto, ci siamo inventati, per definire gli zingari o zigani o gitani o caldera (per non parlare di bohemiens, quello il nome usato per lungo tempo in Francia per via dell’origine boema della colonia zingaresca) un’«etnia rom» che non sta né in cielo né in terra. Un tacon peggiore del buso che oltre tutto ha alimentato - per via di quel «rom», «uomo», in zingaresco - la credenza che tutti gli zingari siano romeni e tutti i romeni siano zingari. Comunque, sono anch’io d’accordo con lei, caro Amato, nel non ritenere in alcun modo offensivo riferirsi agli zingari chiamandoli zingari o gitani. E non credo che nella patria della political correctess sia ritenuto lesivo dei diritti umani l’uso del termine «gipsy» per indicare, appunto, lo zinzaro (parentesi: un caro amico, lo psicanalista italoamericano Ferruccio Di Cori, ebbe ad ospitarmi nella sua bella casa di New York, parlo degli anni Sessanta. Una casa disposta su tre piani e appartenuta, Ferruccio gongolava nel ricordarlo, a Gipsy Rose Lee. Gipsy. Ovvero a colei che avendolo praticamente inventato, o almeno tradotto in genere artistico, diciamo pur così, fu chiamata la «Regina dello spogliarello»).
Che poi, caro Amato, risultano essere davvero un tabù certe espressioni che noi pensiamo messe al bando dal politicamente corretto? Come ad esempio «indiani» per intendere i pellirossa o «negro»? La settimana scorsa il Venerdì di Repubblica aveva in copertina il presidente americano intento a compilare il modulo del censimento, «United States Census 2010». Bene, nell’ingrandimento della domanda numero 9, «What is Person 1’s race», e sottolineo «race», si legge: «Black, African Am.

or negro», e sottolineo «negro». E si legge ancora: «American indian or Alaska native» e sottolineo «indian». Questo negli States, alla Casa Bianca, sotto gli occhi di Obama. E noi la meniamo ancora con «etnia rom»?

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