Non c'è ancora scappato il morto. Ma l'aria a Belfast è pesante come nelle giornate più buie, quelle in cui dire Irlanda del Nord significava violenza fratricida, guerra civile per una frontiera e per una bandiera. Oggi come allora la storia si ripete: auto in fiamme, mattoni e molotov contro le forze dell'ordine, tra cui si contano oltre cinquanta feriti. Ragazzini di dieci e undici anni sul campo di battaglia, pietre come armi usate contro gli agenti prima di finire ammanettati guadagnandosi l'onore dei combattenti veri, i gruppi paramilitari in sonno, pronti a sfruttare ogni scintilla per riaccendere l'odio settario. A dividere sempre la stessa bandiera, la Union Jack britannica che nel suo nome porta il seme dell'unità ma che da secoli spinge a combattersi fratelli contro fratelli: repubblicani, nazionalisti e cattolici da una parte - il cuore che batte per un'Irlanda unita e indipendente da Londra - unionisti, lealisti e protestanti dall'altra, in lotta per difendere l'orgoglio british.
Quattro giorni consecutivi di violenze per le strade della capitale dell'Ulster innescati dalla decisione del Consiglio comunale di Belfast di issare la bandiera britannica sul municipio della città solo in alcune date prestabilite, 17 in tutto, invece che nei consueti 365 giorni dell'anno, come avviene dal 1906, l'anno in cui il municipio ha aperto le sue porte. Uno schiaffo per gli unionisti orgogliosi che il nord dell'isola serva la Corona britannica. Uno sgarro che nell'ultimo mese, subito dopo il voto del 3 dicembre, ha scatenato manifestazioni e proteste e pure il revival dell'antico slogan «no surrender», nessuna resa, fino agli scontri di questi giorni, cento feriti in tutto. D'un colpo la storica immagine che a giugno aveva fatto brindare alla fine dell'odio - la regina Elisabetta II, in viaggio in Ulster, che stringe la mano a Martin McGuinness, ex comandante dell'Ira e oggi vice primo ministro dell'Ulster - sembra già una foto sbiadita.
E dire che la decisione del consiglio comunale di Belfast è il frutto di un compromesso che avrebbe dovuto evitare tensioni. La proposta iniziale dei consiglieri nazionalisti prevedeva di far sparire completamente la bandiera dal palazzo comunale per rispondere alle indicazioni di un rapporto indipendente, che suggeriva di far sventolare la Union Jack solo in alcuni giorni dell'anno, in modo da promuovere buone relazioni fra le due comunità, cattolica e protestante. Alla fine i cattolici del Sinn Fein e i nazionalisti socialdemocratici dell'Sdlp hanno preferito votare la mozione conciliante dell'Alliance Party, il partito dei moderati pro-Londra, ago della bilancia in Assemblea, che alla fine l'ha spuntata ottenendo che la bandiera venisse issata saltuariamente. Ma a nulla è valsa l'opera di mediazione. La consigliera Naomi Long, firmataria della mozione, è accusata di «tradimento» dai gruppi lealisti che hanno messo a ferro e fuoco Belfast est ed è stata pure minacciata di morte. Foschi presagi. Corsi e ricorsi che in realtà l'Ulster vive da anni: rigurgiti di violenza nonostante la pace sia una conquista faticosa, ma una realtà, dalla firma dell'Accordo del Venerdì santo del 1998, traguardo di Tony Blair.
Eppure, come accade nelle terre martoriate da una lunga scia di sangue - 3700 morti da piangere e per qualcuno ancora da vendicare - la paura è che la scintilla di Belfast infiammi la vicina Repubblica d'Irlanda, dove i membri del neonato Ulster People's Forum si troveranno sabato per protestare di fronte alla sede del Parlamento irlandese, per chiedere, in segno di reciprocità, che il tricolore irlandese smetta di sventolare su Dublino. Tra loro - giura il portavoce - ci saranno unionisti vittime dell'Ira negli anni della violenza.
Prenderanno di mira l'abitazione del primo ministro Peter Robinson, tra l'altro leader del partito a loro contiguo, il Democratic Unionist Party «perché non abbandoni i protestanti». Quanto basta per far tornare l'Irlanda tutta, unita, ad aver di nuovo paura.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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