I marò sono tornati in India scortati da Staffan de Mistura, il sottosegretario agli Esteri che cerca disperatamente di trasformare una figuraccia in una vittoria. «È come dire che a Waterloo ha vinto Napoleone», osserva con il Giornale un diplomatico, che ha seguito la vicenda.
Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, dopo essersi illusi di restare a casa, sono tornati ieri nell'ambasciata italiana di New Delhi. In attesa dell'istituzione della corte speciale, che deciderà il loro destino, dovranno firmare una volta alla settimana presso il commissariato di zona e difficilmente otterranno nuovi permessi per tornare in patria. De Mistura appena atterrato in India ha auspicato «un processo rapido. Pochi mesi sarebbero l'ideale».
Poi si è arrampicato tutto il giorno sugli specchi per spiegare tre concetti cardine sull'inversione a U del governo. Il primo: Roma ha ricevuto assicurazioni scritte dagli indiani che i marò non verrano mai condannati a morte. In realtà era un'ipotesi irrealistica sollevata solo da qualche sfegatato comunista nel Kerala all'inizio della crisi. «La corte ad hoc non avrebbe mai mandato sul patibolo i marò e chiedere una garanzia di tal genere è un errore perchè riconosce indirettamente la giurisdizione indiana, cavallo di battaglia dell'Italia fin dall'inizio» fa notare una gola profonda del Giornale che conosce il caso.
L'entità della disfatta italiana è certificata dalle parole pronunciate ieri mattina in parlamento dal ministro degli Esteri indiano, Salman Khurshid, che ieri ha incontrato De Mistura e l'ambasciatore Daniele Mancini. «La nostra posizione è stata resa nota in termini molto chiari al governo italiano - ha detto Khurshid ai parlamentari -. La Corte suprema ha affermato che la giurisdizione del caso è indiana (...). La richiesta italiana per incontri a livello di esperti e diplomatici sulla questione della giurisdizione o l'arbitrato o qualsiasi altro meccanismo non può essere accettata». In pratica un niet secco su tutta la linea.
Al Giornale De Mistura ha spiegato che il secondo cardine dell'inversione a U è stata «l'analisi dei pro e contro del rientro o meno in India». I retroscena non mancano: l'11 marzo, a volere fortemente che i marò restino in Italia sono stati il ministro degli Esteri Giulio Terzi e pure quello della Difesa Giampaolo Di Paola. Settantadue ore prima del voltafaccia la Farnesina mandava in giro una nota esplicativa spiegando perchè Latorre e Girone devono restare a casa. Nel frattempo gli indiani mostravano i muscoli. Il via al ribaltone è stato lanciato dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, auspicando «una soluzione amichevole» con l'India. Il premier Mario Monti non aspettava altro. Sul piatto della bilancia c'era il nostro ambasciatore trattenuto in India, le dure dichiarazioni del premier indiano Manmohan Singh, che ieri ha cantato vittoria e di Sonia Gandhi, «l'italiana» a capo del Congresso, il partito al potere. Non solo: gli indiani minacciavano rappresaglie economiche durissime. Si ipotizzavano cancellazione di contratti per 7 miliardi di dollari, ritorsioni contro le nostre grosse aziende e addirittura blocchi o esclusioni delle navi italiane nei porti indiani.
Il ribaltone è avvenuto giovedì mattina nella riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica con tutti i ministri interessati presenti. E poi ratificato dal Consiglio dei ministri. Al Giornale è stato riferito che Monti ha gelato Terzi e Di Paola. Il ministro della Difesa alla fine sarebbe anche sbottato denunciando il pericolo di una figuraccia.
Alla fine l'Italietta delle migliori tradizioni ha rimandato in India i marò calandosi le brache di fronte alle minacce indiane.
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