Ora piazza Taksim è vuota. Là dove riecheggiavano slogan e proteste son rimasti i gendarmi del «Sultano». Loro, i dimostranti, i «nemici» sono ormai poche decine, hanno volti scavati, occhi arrossati. Sono l'immagine della sconfitta, della capitolazione arrivata dopo una notte di battaglia combattuta a passo di corsa tra cariche della polizia e nubi di gas.
Ma la vittoria del premier Recep Tayyp Erdogan rischia di trasformarsi in un frutto indigesto. Piazza Taksim non è sicuramente - come ricorda il ministro degli Esteri Emma Bonino - piazza Tahrir. La rivolta degli alberi non è la rivoluzione egiziana, il sultano Erdogan, a differenza del Faraone Hosni Mubarak, ha un mandato democratico e i suoi contestatori non hanno la forza, l'impeto e l'organizzazione dei Fratelli Musulmani. Eppure paragonare la rabbia dei giovani turchi a quella dei militanti di «Occupy Wall Street» o agli «indignati» europei, come fa la Bonino, è un paragone riduttivo. Occupy e Indignados sono stati fenomeni marginali, incapaci di mobilitare larghe fette di popolazione. I Taksim people germinati da una protesta ambientalista, moltiplicatisi in 75 città e trasformatasi in un'ondata di protesta contro l'autoritarismo del premier Receep Tayyp Erdogan sono più di un sussulto di piazza. Sono il segnale di un disagio resistente a gas e manganelli e destinato a non svanire presto.
Nel vuoto di piazza Taksim aleggia il malcontento di una parte della nazione decisa a impedire che le vittorie politiche determinate da un voto popolare si trasformino nell'imposizione forzata di regole e stili di vita. Dietro quel malcontento c'è il risentimento di chi ritiene che una maggioranza parlamentare non giustifichi il tentativo di limitare il consumo di alcolici, di consentire l'uso del velo negli uffici pubblici, di incentivare lo studio della religione nelle scuole. Sotto il furore di piazza Taksim si nascondono le paure di chi teme che il Sultano usi il potere conquistato con i mezzi democratici per imporre un governo di stampo islamico. L'illusione di spegnere quell'ascesso con una notte di purghe rischia di trasformarlo in una malattia permanente capace di paralizzare la Turchia e spingere allo scontro la componente laica e quella islamista.
Drammaticamente il primo a ipotizzare una simile possibilità è proprio Erdogan. Non pago di aver mandato gli sgherri a ripulire la piazza e ad arrestare gli avvocati dell'opposizione, non contento di aver minacciato censure e pesanti multe per i mezzi d'informazione colpevoli di aver raccontato la rivolta, il Sultano minaccia di mobilitare i propri militanti per dimostrare il consenso di cui continua a godere. Sicuramente Erdogan non ha problemi a riempire le piazze. La maggioranza della popolazione islamica è sicuramente con lui. E quella che non lo è guarda probabilmente a forme di potere islamico ancora più estremiste. Ma giocare la carta dell'intransigenza è pericoloso perché quel che resta non è una forza influente. In essa non si mescolano solo il disagio dei laici estromessi dall'esercito, della magistratura e dei laici estromessi dai principali posti di comando. Dietro quella rabbia non c'è solo un complotto nemico come ulula il premier. Tra i figli di piazza Taksim c'è una minoranza musulmana come quella alawita sdegnata per l'appoggio alla ribellione siriana imposto da Erdogan a tutta la nazione.
E c'è quella parte del paese sensibile ai valori liberali preoccupata per i piani di un premier egocentrico ed autoritario deciso a trasformare la Turchia in un repubblica guidata da un presidente con ampi poteri. Un presidente destinato ad assumere i poteri alla fine dell'attuale mandato parlamentare. E a chiamarsi inevitabilmente Recep Tayyp Erdogan.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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