L'America Latina al voto per non cambiare nulla

In America Latina il nuovo che avanza è in realtà un film già visto. Sono sette le nazioni che andranno al voto da qui a ottobre. Due, El Salvador e Costarica, l'hanno fatto nelle scorse ore, le altre si stanno preparando. Non certo, almeno dalle premesse, al cambiamento. C'è un filo conduttore di centro sinistra (o di sinistra vera e propria in alcuni casi), che lega passato presente e futuro del subcontinente. Un laboratorio nel quale è possibile individuare un'unità leggibile nell'orientamento politico.
Oggi si conoscerà il risultato del primo turno nel Salvador. L'ex guerriglia di sinistra del Fronte Farabundo Martí, schiera Salvador Sánchez Cerén. Impossibile un qualsiasi colpo di scena. Cerén si troverà ad affrontare nel ballottaggio di marzo Norman Quijano, dentista che tra 2009 e 2013 è stato sindaco di San Salvador e che appartiene al partito di destra Arena. Fluida anche la situazione del Costarica, dove la Costituzione non concede una seconda chance diretta alla presidentessa uscente, ed amatissima, Laura Chinchilla Miranda, che si ripresenterà tra quattro anni. Il suo partito Liberazione Nazionale, di centro-sinistra, si affiderà a Johnny Araya Monge. Il Fronte Ampio (sinistra) ripone le sue speranze in José María Villalta Florez-Estrada, che si dichiara «allievo del brasiliano Lula». Gli altri sfidanti serviranno solo ad alimentare l'eventuale ballottaggio di aprile.
In attesa degli «spareggi» toccherà a Panama andare alle urne il 4 maggio. La nazione dello stretto rappresenta un po' la mosca bianca subcontinentale. Il presidente uscente Ricardo Alberto Martinelli Berrocal, l'uomo più ricco del Paese, non potrà ripresentarsi. Lo sostituirà il delfino José Domingo Arias, industriale tessile già ministro per il Commercio estero. Arias corre per la compagine di centro-destra Cambio Democratico e avrà in Juan Carlos Varela, leader del Movimento liberale repubblicano nazionalista, il più acerrimo rivale.
Tre settimane dopo si vota in Colombia, dove la conferma di Juan Manuel Santos (centrodestra) è tutt'altro che scontata. La scissione all'interno del partito (che per ironia della sorte si chiama Unidad Nacional) e la candidatura nel nuovo polo di centro dell'ex alleato Oscar Iván Zuluaga, potrebbe spianare la strada, neppure troppo a sorpresa, all'economista Clara López Obregón, una laurea a Harvard nel cassetto e un carisma crescente.
Il 5 ottobre è la volta della Bolivia e soprattutto del Brasile. A La Paz si ha l'impressione di assistere a un film già visto, con la nuova incoronazione del «marxista» e «chavista» Evo Morales. L'attuale presidente ha aggirato l'ostacolo grazie a un'interpretazione del Tribunale Costituzionale. Il suo avversario più pericoloso, l'ex sindaco di La Paz Juan Fernando del Granado Cosio, avvocato e difensore dei diritti umani, al momento di bellicoso sembra avere solo il nome del partito, il Movimento senza Paura.
Nelle stesse ore ci riproverà in Brasile Dilma Rousseff, magari con una Coppa del Mondo da esibire ai suoi elettori. Del resto il pallone, come accadde nel 1978 in Argentina, è un prezioso alleato nel regalare una qualche linfa vitale al partito al potere. I sondaggi danno al suo più pericoloso rivale, Aécio Neves da Cunha, un insignificante 9%.
La chiamata alle urne si chiude il 26 ottobre in Uruguay. Il presidente Pepe Mujica passa il testimone nel Fronte Ampio all'oncologo Ramón Vázquez Rosas, già presidente dal 2005 al 2010.

Anche in questo caso potrebbe essere un duello monocolore. A contendergli la poltrona presidenziale appare all'orizzonte la figura della senatrice Constanza Moreira, esponente del movimento degli ex guerriglieri Tupamaros.

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