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L'America si muove: blitz in Libia, marines in Irak

Catturata la mente dell'attentato di Bengasi. A Baghdad soldati a difesa dell'ambasciata

Un veicolo in fiamme al consolato Usa a Bengasi
Un veicolo in fiamme al consolato Usa a Bengasi

Nel dicembre 2011 Barack Obama annunciava dalla base militare di Fort Bragg il ritiro degli ultimi soldati americani dall'Irak, dopo nove anni di conflitto. Gli eventi degli ultimi giorni in Medio Oriente, l'avanzata violenta degli uomini armati dello Stato islamico dalla Siria nel Nord dell'Irak, la loro progressione verso la capitale - ieri si combatteva anche nei pressi della città di Baquba, 45 minuti in automobile da Bagdad - costringono ora l'America, anche soltanto per la protezione del personale della sua ambasciata, a far compiere ai propri soldati il percorso inverso: dalle basi del Golfo di nuovo verso Bagdad. Il presidente americano ha infatti notificato lunedì il Congresso dell'invio di personale militare - circa 250 persone - nella capitale irachena. Secondo l'emittente Fox News, 170 soldati sono già arrivati, pronti a proteggere l'enorme sede diplomatica di Bagdad. Un altro centinaio di uomini sono invece in attesa di ordini in una base del Golfo, probabilmente in Kuwait, cinque navi da guerra con a bordo marines e una portaerei sono ancorate a largo del Golfo Persico. In queste ore, l'Amministrazione sta inoltre valutando l'invio di un centinaio di uomini delle forze speciali per assistere l'esercito iracheno nel tentativo di contenere la spinta dello Stato islamico. Proprio nelle stesse ore, un gruppo di forze speciali assieme all'Fbi ha catturato in Libia uno dei sospetti dietro l'attacco del 2012 al consolato di Bengasi. L'uomo, Ahmed Abu Khattala, si trova ora in custodia fuori dal territorio libico.
L'Amministrazione non avrà però il tempo per celebrare questo successo a causa della pericolosa situazione in Levante. L'America sperava di aver chiuso il capitolo Irak. Se soltanto a fine maggio Obama in un discorso davanti ai cadetti dell'Accademia militare di West Point spiegava come l'esercito americano non possa essere la sola componente della leadership degli Stati Uniti, il precipitare degli eventi obbliga adesso il presidente suo malgrado a dover coinvolgere, anche se con numeri contenuti, personale militare. Il segretario di Stato John Kerry, inoltre, lunedì ha ammesso che il Pentagono starebbe valutando la possibilità di attacchi aerei.

Gli Stati Uniti reagiscono riluttanti alle trasformazioni sul campo. Gli equilibri regionali sono compromessi e mosse false sono destinate a creare profonde crepe. Washington in questi giorni potrebbe aprire un inedito canale di comunicazione con l'Iran, sostenitore del governo iracheno sciita di Nouri Al Maliki e interessato a preservare la comunità sciita in Irak, minacciata dall'avanzata dei miliziani sunniti. Londra ha annunciato ieri che riaprirà la sua ambasciata a Teheran. Un eventuale riavvicinamento è destinato a infastidire le monarchie sunnite del Golfo, a sollevare accuse contro gli Stati Uniti e la comunità internazionale di sostegno agli sciiti in funzione anti-sunnita. Dall'altra parte, il premier Maliki, alla richiesta di Washington di calmare le tensioni settarie in Irak ha risposto ieri boicottando il blocco politico sunnita e accusando l'Arabia Saudita di «genocidio».

Riad finanzia gruppi armati sunniti in Siria ma nega ogni appoggio allo Stato islamico.

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