L'orrore non abbandona l'Irak. Settemila morti sotto le bombe

Il Paese martoriato da attentati e scontri tra fazioni rivali. Il mattatoio causato dal riemergere delle cellule di Al Qaida. L'incubo guerra civile

Un gruppo di fondamentalisti brucia un'auto della polizia
Un gruppo di fondamentalisti brucia un'auto della polizia

L'orrore a volte ritorna. In Irak sta succedendo. Per capirlo basta contare i morti. Nell'anno appena chiuso bombe, scontri armati e attentati hanno spedito al creatore, secondo l'Onu, 7150 civili e 850 uomini in divisa.

Nel 2013 il totale delle morti causate da violenza e terrorismo supera insomma quota 8000. Per imbattersi in un'annata altrettanto violenta bisogna tornare indietro di almeno cinque anni. Ma un paragone più approfondito con il 2008 rischia di rivelarsi ancor più devastante. In quell'anno scandito dalla cosiddetta surge, l'offensiva guidata dal generale David Petraeus che ribaltò le sorti del conflitto, il numero delle vittime fu elevato nella prima metà dell'anno, ma diminuì drasticamente nella seconda. Oggi le cose vanno esattamente all'opposto con due terzi delle vittime concentrate nella seconda metà del 2013. Con queste premesse, secondo Iraq Body Count - l'organizzazione non governativa inglese che monitora la violenza nel paese - il 2014 potrebbe rivelarsi ancora peggiore. In effetti se le statistiche inquietano, i fatti fanno tremare. La maggior parte degli ottomila morti del 2013 sono la diretta conseguenza del riemergere delle cellule di Al Qaida tornate a controllare i territori del triangolo sunnita. Dietro questo precipitoso ritorno al passato c'è il frettoloso ritiro di tutte le forze americane voluto nel 2011 dal presidente Barack Obama nonostante il parere contrario dei suoi generali. «Un ritiro troppo rapido rischia - avvertiva il generale Petraeus - di compromettere le iniziative assunte localmente per garantire la sicurezza, consentire ad Al Qaida di recuperare terreno perduto e libertà di manovra, determinando un marcato aumento della violenza e l'esacerbazione delle già problematiche dinamiche regionali specialmente per quel che riguarda l'Iran». Gli avvertimenti di Petraeus si rivelano oggi profetici. Dopo l'abbandono americano imposto da Obama, Teheran ha immediatamente attratto nella propria orbita l'esecutivo guidato da Nouri Al Maliki, il premier sciita rientrato alla caduta di Saddam dopo 24 anni di esilio trascorsi tra Siria e Iran. La cancellazione degli accordi con le tribù sunnite - a cui gli americani avevano garantito mano libera nella gestione della sicurezza locale e fruttuose agevolazioni commerciali - ha fatto il resto. Sfruttando il malcontento diffusosi nelle aree sunnite Al Qaida ha rapidamente riguadagnato consensi riprendendo il controllo di vaste aree. Oggi province come quelle di Anbar, o città come Mosul nel nord, sono feudi incontrastati dello «Stato Islamico in Iraq e Levante», l'organizzazione che oltre a mettere a segno attentati e attacchi in Irak combatte contro Bashar Assad in Siria. La serie di autobombe esplose il 31 dicembre scorso ai quattro angoli della provincia di Anbar ha costretto il premier Maliki ad accettare la richiesta dei capi tribù sunniti di ritirare l'esercito dalla zona.

Con Al Qaida padrona della situazione nel triangolo sunnita, il settentrione nelle mani dei curdi e il resto del paese governato da un esecutivo ormai più allineato con Teheran che con Washington, l'Irak rischia di precipitare nuovamente nella guerra civile che tra il 2004 e il 2006 trasformò il paese in un mattatoio. Se per gli iracheni il 2014 rischia di segnare il ritorno all'inferno, per gli americani minaccia di diventare la consacrazione di tutti i fallimenti di Obama. Un Irak consegnato per metà all'Iran e per l'altra ad Al Qaida è una ferita che l'America difficilmente potrà perdonare. Non solo per il prezzo carissimo pagato in Irak in termini di risorse economiche e vite umane.

A rendere il tutto devastante per l'attuale Amministrazione s'aggiunge il timore che anche il ritiro dall'Afghanistan, fissato per i prossimi mesi, si riveli per l'America un disastro delle medesime proporzioni di quello iracheno.

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