Luca Fazzo
Non è un mistero, il rapimento dell'imam Abu Omar. Della rendition da parte della Cia del predicatore islamico, prelevato in una strada milanese e spedito in jet al Cairo nel febbraio 2003, esiste una ricostruzione meticolosa. Anzi, ce ne sono due. E proprio qui sta il guaio. Perché le due ricostruzioni collimano solo nell'ultimo tratto della storia, quello che sembra un film con Matt Damon: il prelievo in via Guerzoni, il furgone bianco che sfreccia verso la base di Aviano, il viaggio con tappa a Ramstein verso le galere di Mubarak. Ma le due ricostruzioni divergono - in modo radicale: due film diversi, o uno di quei film dalla doppia verità - su quanto accadde prima. Diversa la genesi del rapimento, diversi i tempi. Opposte le conclusioni sul ruolo che nel dare sponda agli americani ebbero il generale che in quel febbraio del 2003 sedeva nel grande ufficio di Palazzo Baracchini da cui si governa l'intelligence militare, il direttore Niccolò Pollari, e i suoi uomini condannati insieme a lui: quelli della prima divisione del Sismi.
Una delle ricostruzioni è quella che la Procura di Milano e la Digos hanno portato nelle aule dei processi, e che dopo alterne vicende ha portato alla condanna in appello di Pollari e dei suoi uomini della prima divisione: che non solo sapevano delle intenzioni della Cia ma, nel corso di una riunione a Bologna, avrebbero deciso di dare una mano agli americani, pedinando un paio di volte Abu Omar. Poi però, c'è l'altra versione. Che non è mai uscita allo scoperto, non è mai stata portata in un aula di tribunale. È la versione che conoscono almeno quattro uomini. Uno è il presidente del Consiglio Mario Monti. Gli altri sono i tre della catena con cui Monti svolge il suo ruolo istituzionale di dominus supremo della nostra intelligence: il sottosegretario Gianni De Gennaro, il capo del Dis Giampiero Mascolo, il nuovo direttore dell'Aise (l'ex Sismi) Adriano Santini.
Questa versione è il frutto di una clamorosa inchiesta interna al Sismi durata oltre un anno. Cosa ci sia scritto esattamente non si sa, perché è coperta dal segreto di Stato. Ma come spesso accade ne circolano frammenti e tradizioni orali. Si dice che retrodati di diversi mesi i contatti tra Cia e Sismi, che chiami in causa altre strutture, altri uomini, della nostra intelligence. È a questa versione che fa riferimento Pollari quando nell'intervista al Giornale di martedì scorso fa sapere che se si alzasse il velo del segreto «uscirei dal processo in pochi minuti, e sarebbero altri a trovarsi in una situazione imbarazzante».
Poi c'è un e-book che pubblica domani Panorama scritto da una scrupolosa Annalisa Chirico («Segreto di Stato, il caso Nicolò Pollari») dove affiorano alcune delle tracce finora disponibili di questa verità parallela e alternativa. Due tracce, in particolare, che costringerebbero a rileggere la vicenda in modo opposto. Una è l'analisi della inspiegabile sospensione del pedinamento di Abu Omar da parte della Digos milanese, che lascia di fatto campo libero alla rendition. L'altra è la rilettura integrale della figura della presunta vittima: fino a concludere che, in realtà, il rapimento potrebbe non essere stato un rapimento: ma piuttosto una operazione di salvataggio, un modo in cui la Cia mise al sicuro quello che sembrava un pericoloso estremista, ma invece era un suo prezioso informatore. È una tesi che ha fatto timidamente capolino nel processo, e che spiegherebbe la singolare disinvoltura con cui gli agenti Cia agirono al momento di prelevare Abu Omar, seminando tracce di ogni tipo come nemmeno Pollicino avrebbe potuto fare. Annalisa Chirico ha messo insieme carte sepolte nei faldoni, nuove prove, interviste, documenti inediti. Dopodiché ha tirato il filo.
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