La profezia Maya non si è avverata, ma sarà meglio tenere ancora a portata di mano gli amuleti anti-jella. Negli Stati Uniti sta infatti per scattare l'ora del fiscal cliff, il micidiale cocktail di aumenti di tasse e tagli automatici alle spese. Considerata la pausa natalizia, il Congresso ha a disposizione appena una manciata di giorni per trovare entro la fine dell'anno un'intesa utile a scongiurare il precipizio fiscale. La bocciatura del «piano B» presentato dallo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, da parte dei suoi stessi colleghi ha di fatto sancito una spaccatura netta tra il partito dell'Elefante e Barack Obama. Alla linea della distensione che sembrava profilarsi dopo il voto presidenziale, si è ora sostituito un vociare sterile. Il duello è sul nodo dei nodi: le tasse.
Con la scadenza del 31 dicembre ormai vicina, Obama si ritrova senza un interlocutore. Il Grand Old Party non ha neppure voluto prendere in considerazione l'ipotesi di compromesso di Boehner, quella sua proposta di aumentare le imposte a chi guadagna più di un milione di dollari. Per farlo ben capire, i deputati hanno disertato in massa la Camera. E il voto è stato così cancellato. Certo, uno schiaffo a Boehner, che ora rischia di perdere il posto di speaker, ma anche la prova di quanto le distanze tra gli schieramenti siano ancora ampie. Forse incolmabili. Obama è disposto ad alzare la soglia della tassazione sui redditi dagli iniziali 250mila a 400mila dollari. Non un dollaro in più. Un dialogo tra sordi.
Così l'America balla su una polveriera, e i mercati hanno ricominciato a temere il peggio. Lo si è visto ieri dalla risalita dello spread Btp-Bund a quota 310, dalla retromarcia delle Borse (-0,40% Milano) e dalla discesa del petrolio sotto i 90 dollari il barile. Il timore è l'innescarsi di una crisi globale. Il mancato accordo sul precipizio fiscale costerebbe infatti circa quattro punti di Pil all'America, condannandola alla recessione. Le stime più recenti parlano di un milione di disoccupati in più. Le condizioni precarie del mercato del lavoro sono l'anello debole della ripresa, il nervo scoperto che a Obama poteva costare la poltrona della Stanza Ovale. Non a caso, la Federal Reserve ha messo in cima alla lista delle priorità proprio il recupero dell'occupazione. Stabilendo che i tassi resteranno schiacciati a livello zero fino a quando i senza lavoro non saranno scesi al 6,5% (erano al 7,7% nel novembre scorso). Il problema è che proprio le incognite legate al precipizio fiscale stanno condizionando la Corporate America, dove non si investe e non si assume. E le cose andranno peggio se dovesse scattare il temuto aumento automatico che porterebbe la pressione fiscale dall'attuale 35% a circa il 40%, un livello mai più toccato dai tempi dell'amministrazione Clinton. Certo, si tratta di una percentuale nettamente inferiore a quella italiana (55%), o di Paesi come Danimarca e Francia (48%), ma intollerabile per una nazione nata proprio da una rivolta fiscale.
Meglio allora agire sugli sgravi? Anche eliminandoli non si ridurrebbe, se non in minima parte, l'indebitamento statunitense. Nella migliore delle ipotesi il risparmio si aggirerebbe sugli 834 miliardi di dollari l'anno. Ma a quale prezzo? Le famiglie, per esempio, dovrebbero rinunciare alle detrazioni sui mutui per la casa, con una conseguente perdita di valore dell'immobile e una contrazione delle compravendite provocata dal più alto costo dei prestiti.
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